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Deepwater Horizon, 10 anni dopo il disastro

Le conseguenze dello sversamento di petrolio hanno impattato gravemente gli ecosistemi marini, quelli terrestri e l'economia locale. Eppure negli Stati Uniti si parla di ampliare l'attività estrattiva.

Sono passati esattamente 10 anni: era il 20 aprile 2010 e nel Golfo del Messico, Stati Uniti, esplodeva la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della British Petroleum. Per 87 giorni il petrolio avrebbe continuato a finire in mare, oltre 150.000 litri ogni giorno, arrivando a “rubare” al disastro della Exxon Valdez (1989) il devastante record di peggior sversamento della storia. 262.000 barili di greggio, per un totale di oltre 200.000 tonnellate di petrolio. Nel 2017 uno studio pubblicato su Science ha quantificato il danno complessivo a 17 miliardi di dollari. Una cifra importante, che attribuiva finalmente un valore alla devastazione del territorio dal punto di vista non solo economico in senso stretto ma ambientale, un costo alle centinaia di migliaia di animali morti, gravemente colpiti o mai nati: nei cinque anni successivi al disastro, si stima che il 75% delle gravidanze dei delfini nell’area impattata dallo sversamento non sia andato a buon fine (ne abbiamo parlato qui e qui).

Ma quello studio, così come le altre stime sull’impatto di DH, mandava anche un messaggio: come stabilito dall’Oil Pollution Act (OPA) statunitense nel 1990, avere in mano numeri simili è cruciale non solo per guidare le negoziazioni e stabilire le responsabilità, ma per influenzare future decisioni. Ovvero impedire che disastri simili capitino ancora, scegliendo la cultura della consapevolezza e della prevenzione: se c’è un momento storico nel quale possiamo capirne l’importanza, è decisamente questo.

10 anni dopo quindi, la lezione è servita? Dall’organizzazione per la conservazione degli oceani OCEANA, che ha pubblicato il report Hindsight 2020: Lessons We Cannot Ignore from the BP Disaster, arriva quello che sembra un secco no. Dal 2018 l’amministrazione Trump ha palesato di voler riprendere – e anzi ampliare in tutte le acque statunitensi – le perforazioni per estrazione petrolifera. Eppure, scrivono gli esperti di OCEANA, il disastro DH è stato il risultato di decenni di scarsa cultura della sicurezza e decisioni irresponsabili. A oggi queste premesse non sono cambiate e non serve attendere eventi eccezionali per constatare che l’impatto delle attività estrattive è pesante e continuo: nelle acque federali, riporta l’organizzazione, si verifica una media di due sversamenti di greggio al giorno, ogni anno vengono registrati 115 tra incendi ed esplosioni, 48 decessi e più di 3.000 incidenti che feriscono i lavoratori.

Dopo Deepwater Horizon

Diversi studi hanno aggiunto informazioni allo scenario del post-sversamento, che si è rivelato ancora più grave del previsto: l’area colpita era stata stimata, grazie alle misurazioni da satellite, a quasi 150.000 chilometri quadrati. Ma come si leggeva a febbraio su Science Advances, è probabile che la superficie toccata dagli inquinanti sia stata ben più ampia di quella stimata (e di quella dove è stata effettivamente interrotta l’attività di pesca da parte della fervida industria ittica del golfo). Sfruttando osservazioni sul posto e modelli per studiare la dispersione e il trasporto del petrolio, un gruppo di scienziati della University of Miami ha segnalato che le aree del golfo impattate sono probabilmente state ben più ampie e che, in un’ottica di tutela della salute pubblica e dell’ambiente, è fondamentale mappare in modo dettagliato i versamenti.

Anche dalla Gulf of Mexico Research Initiative, iniziativa di ricerca indipendente e multidisciplinare finanziata da British Petroleum con 500  milioni di dollari dopo l’incidente, negli anni non sono arrivate buone notizie. La University of South Florida, ad esempio, ha ricevuto quasi 40 milioni e creato un consorzio dedicato, che ha appena pubblicato i dati dei campionamenti su specie marine incluse quelle di interesse alimentare. Oltre 2.500 pesci di 91 specie, raccolti in 359 punti del golfo: i risultati? Tutti sono stati esposti al petrolio e tra i più colpiti c’erano il tonno a pinne gialle, il malacantide Lopholatilus chamaeleonticeps e Sciaenops ocellatus.

Ma tra gli ambienti impattati non ci sono solo quelli marini: le reti trofiche delle coste del golfo sono state gravemente compromesse e – se gli studi del passato parlavano di decenni per una ripresa dopo eventi di impatto simile – le pubblicazioni più recenti confermano. Monitorando l’abbondanza e la biomassa delle due specie principali delle paludi salmastre del golfo, Spartina alterniflora e Juncus roemerianus, oltre alle microalghe e agli invertebrati che popolano questi ambienti (anfipodi, copepodi, chiocciole, vermi…) a intervalli regolari tra il 2011 e il 2016, è emerso che quasi tutte le piante nelle aree più colpite sono morte, mentre invertebrati e microalghe hanno in generale subito impatti notevoli.

A due-tre anni dallo sversamento, a guidare la ripresa sono state proprio le microalghe oltre a S. alterniflora, che sembra gettare le basi per tutta la vita nelle paludi. Le piante sono le fondamenta delle paludi salmastre, spiegavano gli autori, perché permettono agli invertebrati di colonizzare l’ambiente, fornendo cibo, rallentando il flusso dell’acqua e creando per loro un habitat. “Senza piante non c’è palude e un recupero delle paludi non è possibile, dopo uno sversamento, se non ci sono piante ad aprire la strada”, concludevano gli autori su Estuaries and Coasts.

Un disastro non solo marino

Se gli habitat terrestri sono passati in secondo piano, infatti, non è perché non siano stati impattati: un nuovo studio sui passeri Ammospiza marittima, pubblicato su Science of the Total Environment, ha mostrato una serie di effetti tossici su questi uccelli che abitano le paludi salmastre statunitensi tutto l’anno. “Abbiamo analizzato la risposta genetica dei passeri in termini di espressione dei geni, il che ci aiuta a capire quali meccanismi sono stati attivati dall’esposizione al petrolio e quali sono stati gli effetti tossici”, spiega a OggiScienza Andrea Bonisoli Alquati, Assistant Professor alla California State Polytechnic University, Pomona, primo autore dello studio. Già nel 2016 Bonisoli Alquati e il suo team avevano analizzato la dieta e il piumaggio di questi uccelli su esemplari studiati a oltre un anno dallo sversamento, dimostrando che il petrolio era stato incorporato. Oggi hanno fatto un passo in più.

“Abbiamo studiato campioni raccolti nel 2011, poco tempo dopo il disastro. Oggi possiamo dire che gli effetti tossici ci sono stati, anche nel contesto di una rete trofica terrestre: quella delle paludi costiere, dove il petrolio si pensa non arrivi, ma è arrivato. I passeri hanno incorporato il petrolio e questo ha attivato una serie di geni che sappiamo partecipare al metabolismo delle sostanze tossiche e degli inquinanti organici. L’espressione dei geni funge da misura di quanto determinate funzioni vengono espresse, e in questo caso vediamo funzioni coinvolte appunto nel metabolismo ma anche nella sintesi e nell’utilizzo di grassi e altri lipidi. Questo può indicare che c’è stato un effetto tossico nel fegato, oppure che c’è una carenza di energia: le popolazioni di invertebrati dei quali si nutrono questi passeri sono collassate, e questo si sta riflettendo sulla loro necessità di cibo e in generale sul metabolismo. Entrambi gli scenari, supponiamo, possono tradursi in  conseguenze per il successo riproduttivo di questa specie”.

Biomarcatori per la ricerca

Va ricordato: non stiamo parlando di quel tipo di contaminazione che abbiamo tristemente imparato a riconoscere dalle foto post-disastro, con pellicani completamente ricoperti di petrolio. Gli effetti ci sono, e sono importanti, anche quando invisibili a occhio nudo: per questo è fondamentale continuare a studiarli. I percorsi biochimici attivati nei passeri dall’esposizione al petrolio, inoltre, sono simili a quelli documentati nei pesci: una scoperta importante, perché conferma che nella risposta di animali diversi alla contaminazione da petrolio sono coinvolti meccanismi condivisi e ci permette di selezionare dei biomarcatori – da singoli geni a meccanismi fisiologici – da andare a investigare in situazioni simili. Per cercare e quantificare le conseguenze, da subito, in specie diverse.

“Per alcune specie è stato documentato un recupero mentre per altre no, se non a diversi anni dal disastro”, prosegue Bonisoli Alquati, “dunque c’è stato un importante cambiamento nella composizione della comunità. Per i passeri non abbiamo documentato un declino nella popolazione, ma sarebbe stato complicato in ogni caso: ci sono dei meccanismi di compensazione, ad esempio individui che arrivano nelle paludi locali da altre popolazioni. Al contempo, è la prima volta che si studia l’impatto di un inquinante su una rete trofica in modo da relazionare le diverse abbondanze dei vari anelli che la compongono: è un approccio ambizioso e potrà dirci molto”.

Un’ulteriore difficoltà risiede nella mancanza di dati storici strutturati: se non ho numeri precisi che descrivano com’era un’ecosistema nel passato, è difficile quantificare l’impatto dopo una catastrofe. Anche se di portata drammatica come questa. “Abbiamo un grosso problema che affonda le radici nell’importanza, sottovalutata, della ricerca di base”, conferma Bonisoli Alquati. “Ovvero che i dati non andrebbero raccolti quando succede qualcosa, ma prima. Non è pensabile fare monitoraggio costante ovunque, ma negli ambienti di maggior interesse e più a rischio – il golfo del Messico, in questo caso, vi rientra – dovrebbe essere la normalità”.

La direzione futura

Tra gli obiettivi della ricerca ecologica che segue questo genere di disastri ambientali c’è, dunque, identificare dei biomarcatori specifici, che permettano di individuare rapidamente e su diverse specie le conseguenze di una contaminazione, oltre a chiarire gli effetti sulla fisiologia animale.

“Sappiamo già di alcuni geni che rispondono specificamente alla contaminazione da idrocarburi”, precisa Bonisoli Alquati. “Conosciamo alcuni marcatori dell’esposizione, che sappiamo rispondere rapidamente alle sostanze estranee. Gli effetti, tuttavia, sono meno studiati: le tecnologie che consentono di fare screening genomici e trascrittomici vengono impiegate in ambito tossicologico solo da qualche anno, e non si tratta solo di lavorare su singoli geni, bensì su pattern. Il livello di complessità è superiore, e potremmo dire che non lo ‘maneggiamo’ del tutto, in qualsiasi ambito si vada a esplorare. Solo ora stiamo capendo con chiarezza quali network di geni sottostanno a determinati effetti tossici, ad esempio, così come questi network si relazionino agli effetti fisiologici e comportamentali sulle diverse specie”.

Insomma, abbiamo appena iniziato a capire la complessità di questi meccanismi. Per studiare l’impatto di catastrofi come Deepwater Horizon ci vogliono anni, e probabilmente altrettanti serviranno affinché le evidenze scientifiche arrivino a impattare i processi decisionali per tutelare la salute pubblica e l’ambiente. Ma Bonisoli Alquati è ottimista. “Se credi nella scienza, credi anche che possa servire a influenzare le decisioni politiche”.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Grafica: OCEANA Spillmap

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".