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Come funzionano (e a cosa servono davvero) i test sierologici per la Covid-19

Presto sapremo quanto si è diffuso il nuovo coronavirus in Italia, ma non avremo “patenti d’immunità” per gestire la fase 2

Il 4 maggio, in concomitanza con l’inizio della cosiddetta fase 2, prenderà il via anche l’attesa indagine sierologica per mappare la diffusione del coronavirus SARS-CoV-2 nella popolazione italiana. Si tratta di un’analisi del sangue effettuata su un campione di 150 mila persone per stabilire quanti hanno davvero contratto la malattia, magari senza neppure sviluppare i sintomi. È un’indagine importante dal punto di vista epidemiologico, ma gli esperti mettono in guardia dalla tentazione di usare i risultati per assegnare “patenti di immunità” o per gestire l’uscita dal lockdown, perché ancora non sappiamo se e quanto gli anticorpi proteggano da una seconda infezione. Ecco dunque come funzionano i test sierologici e a cosa servono davvero.

La ricerca degli anticorpi

Esistono vari tipi di test sierologici, più o meno affidabili ma tutti progettati per il medesimo scopo: individuare nel siero sanguigno la presenza di anticorpi sviluppati dal sistema immunitario in risposta al coronavirus SARS-CoV-2. Se il test risulta positivo, significa che la persona è stata contagiata e l’esposizione al virus ha stimolato la produzione di anticorpi; se invece è negativo significa che non è entrata in contatto con il virus.

La maggior parte dei test è progettata per individuare la presenza di due anticorpi specifici, le immunoglobuline IgM e IgG. Le prime sono prodotte dopo pochi giorni dal contagio e svaniscono nel corso di qualche settimana lasciando il posto alle IgG, che invece compaiono più tardi ma sono più specifiche e restano nel sangue più a lungo, anche dopo la guarigione. Se il test rileva la presenza di IgG, significa che il contagio è avvenuto almeno due settimane prima. Le IgG conservano la memoria immunitaria della minaccia che ha stimolato la loro produzione per consentire all’organismo di reagire più in fretta in caso di un nuovo contagio.

Dunque, a differenza dei tamponi, che rilevano la presenza del coronavirus nelle mucose respiratorie e consentono di stabilire se la persona è infetta in quel preciso momento, gli esami sierologici permettono di scoprire se si è contratta l’infezione nelle settimane o nei mesi precedenti all’esecuzione del test.

Sono affidabili?

Gli test sierologici possono essere divisi in due grandi categorie. I test rapidi hanno il vantaggio di fornire un risultato in pochi minuti prelevando una singola goccia di sangue dal dito, ma sono poco affidabili, mentre quelli più precisi sono classici esami del sangue: necessitano di un prelievo venoso e dell’analisi in laboratorio, ma possono arrivare a valori di specificità e sensibilità del 99% (o almeno così affermano i produttori: la rivista scientifica Nature appare scettica sulla reale affidabilità dei test, che deve ancora essere comprovata). In sostanza, significa che la percentuale di falsi positivi (gli anticorpi non sono presenti ma vengono trovati per errore) e di falsi negativi (gli anticorpi ci sono ma non vengono trovati) è limitata all’1%. Per alcuni test rapidi oggi in commercio l’accuratezza dei risultati può scendere addirittura sotto al 50%.

Un secondo problema è dato dal fatto che, sebbene i test sierologici possano dirci, in modo più o meno affidabile, se una persona è stata contagiata, ancora non sappiamo se e in che misura la produzione di anticorpi sia in grado di assicurare l’immunità nei confronti nuovo coronavirus, né quanto possa eventualmente durare. Si tratta di un dilemma cruciale perché da questo dipende la possibilità di sviluppare un vaccino che garantisca un’adeguata copertura contro la COVID-19.

L’ipotesi prevalente è che l’esposizione al SARS-CoV-2 possa offrire almeno un’immunità temporanea, come avviene per i coronavirus del raffreddore (che inducono un’immunità della durata di poco meno di un anno) o della SARS (che sembra conferire un’immunità di qualche anno). Si tratta però di congetture. Del resto, conosciamo il nuovo coronavirus da appena quattro mesi e servirà tempo per capire cosa accada nel corpo delle persone guarite dalla COVID-19.

Non è neppure detto che gli anticorpi rilevati dai test sierologici siano neutralizzanti, cioè capaci non solo di riconoscere il nuovo coronavirus ma anche di eliminarlo. Sono stati osservati pazienti che, pur avendo una concentrazione elevata di anticorpi nel sangue, non riescono a debellare l’infezione. Molti asintomatici, al contrario, non sembrano produrre abbastanza anticorpi per prevenire un secondo contagio.

Nessuna patente d’immunità

Al momento queste incertezze impediscono di ricorrere ai test sierologici per conferire una “patente d’immunità” alle persone guarite, come era stato suggerito da alcuni esponenti politici europei, tra cui il governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, nella speranza di poter accelerare la ripartenza consentendo alle persone guarite di tornare subito al lavoro.

E forse non è neanche auspicabile giacché significherebbe discriminare fra “immuni” e “suscettibili”, avvallando di fatto la costituzione di una classe di cittadini privilegiati – liberi di muoversi senza restrizioni, tornare in ufficio o andare in vacanza – soltanto in base ai risultati di un test sierologico.

Anche il ministro della Salute Roberto Speranza aveva indicato i test sierologici tra i cinque capisaldi della strategia per gestire la fase 2 (insieme al potenziamento della medicina territoriale, ai Covid Hospital, all’app di tracciamento dei contagi e al mantenimento delle misure di distanziamento sociale e di protezione individuale) ma è evidente che, almeno per il momento, non è questo il loro scopo.

D’altro canto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha escluso l’impiego dei test sierologici per conferire patenti di immunità, definendo pericoloso il concetto stesso, perché potrebbe indurre un senso di falsa sicurezza. Secondo l’OMS, infatti, «al momento non ci sono evidenze che le persone guarite dalla COVID-19 e che hanno sviluppando gli anticorpi siano protette da una seconda infezione».

E allora a cosa servono?

Sebbene nell’immediato i test sierologici non siano in grado di risolvere il rebus dell’immunità,  possono essere impiegati nelle indagini epidemiologiche per comprendere quante persone sono state finora contagiate dalla COVID-19 (e dunque di stimare in modo più accurato la letalità della malattia), mappare la diffusione del nuovo coronavirus virus nelle diverse aree geografiche e tra i diversi segmenti della popolazione.

In seconda battuta, se dovesse trovare conferma che la guarigione conferisce un certo grado di protezione, le indagini sierologiche potrebbero darci un’idea di quanto siamo distanti dal raggiungere la cosiddetta immunità di gregge. Gli esperti stimano che quando il 60-70% della popolazione sarà protetta dagli anticorpi il coronavirus comincerà a circolare con crescente difficoltà. Puntare sull’immunità di gregge in assenza di un vaccino è tuttavia una strategia molto discutibile dal punto di vista etico perché implica accettare che molte persone si ammaleranno e moriranno. Finora le indagini sierologiche preliminari condotte nel mondo hanno indicato una diffusione del contagio compresa fra il 5% nelle regioni meno colpite e il 15-30% nelle regioni più colpite. Ma sono dati ancora molto incerti.

Cosa è successo a New York

Come ha raccontato il New York Times, nonostante la maggior parte degli esperti ritenga che i test sierologici non offrano indicazioni affidabili per indirizzare le politiche pubbliche – a questo scopo sono molto più utili i tamponi – è difficile evitare che, con la loro diffusione, i risultati non influenzino la gestione di un lockdown che oggi nel mondo coinvolge tre miliardi di persone e rischia di mettere in ginocchio l’economia globale.

Lo mostra il dibattito scatenato dall’indagine sierologica condotta a metà aprile su tremila abitanti di New York, che ha permesso di scoprire come un residente su cinque (il 21% per la precisione) abbia sviluppato gli anticorpi contro il nuovo coronavirus. Il governatore Andrew Cuomo, che sperava di avere qualche indicazione dai test per l’agognata ripartenza, ha interpretato i risultati come un’ottima notizia perché dimostrerebbero che SARS-CoV-2 ha una letalità compresa tra lo 0,5% e l’1%, troppo bassa secondo diversi commentatori per giustificare un lockdown generalizzato.

Ma gli esperti hanno interpretato gli stessi dati in modo opposto. «Se un newyorkese su cinque ha contratto il virus, allora significa che quattro su cinque sono ancora vulnerabili al contagio, a dimostrazione di quanto siamo ancora lontani dalla fine dell’epidemia», ha detto Carl Bergstrom, esperto di malattie infettive dell’Università di Washington. Aggiungendo che, senza restrizioni, con tutte quelle persone là fuori ancora suscettibili al contagio, con una letalità dell’1% negli Stati Uniti si conterebbero due milioni di morti.

L’indagine italiana

In Italia lo screening sierologico nazionale sarà condotto su un campione di 150 mila persone rappresentativo dell’intera popolazione. Inutile prenotarsi: i partecipati saranno sorteggiati da una lista già preparata da Inail e Istat in base a criteri di residenza, occupazione, sesso e fasce d’età. Il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri ha annunciato che sarà impiegato un test sierologico sviluppato dal colosso farmaceutico statunitense Abbott, che si è aggiudicato l’appalto con una gara a cui hanno partecipato 72 aziende. Si tratta un esame del sangue che richiede il prelievo venoso e l’analisi in laboratorio. Abbott concederà i 150 mila kit richiesti dal governo per l’indagine a titolo gratuito, ma ha fatto sapere che entro maggio rifornirà il mercato italiano con 4 milioni di test sierologici, questa volta a pagamento.

Il commissario Arcuri assicura che si tratta del test più affidabile sul mercato. Abbott sostiene che ha una  specificità e una sensibilità superiori al 99% dopo 14 giorni o più dall’insorgenza dei sintomi. Sarà possibile analizzare fino a 200 test per ora coinvolgendo un migliaio di laboratori di tutta Italia. Per completare l’indagine serviranno alcune settimane. A quel punto, se i test si riveleranno precisi come sostiene l’azienda produttrice,  avremo un’idea molto più chiara sulla diffusione del nuovo coronavirus in Italia.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).