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Le strategie più efficaci contro la pandemia di Covid-19

I ricercatori studiano quali misure hanno funzionato meglio nell’arginare il contagio: saranno essenziali per gestire la difficile convivenza con il nuovo coronavirus.

Mai era accaduto che metà della popolazione globale finisse in quarantena nel tentativo di contenere la diffusione di un’epidemia. Quando a gennaio la Cina ha congelato la socialità di decine di milioni di persone a Wuhan e nella provincia dell’Hubei, il mondo aveva guardato con stupore al rigore del governo di Pechino. Ben presto, tuttavia, di fronte all’avanzata inarrestabile del contagio e in assenza di farmaci e vaccini, ogni governo è stato costretto a introdurre misure di distanziamento sociale e procedure per identificare e isolare le persone contagiate dal coronavirus SARS-CoV-2, che ha già causato più di 250 mila vittime.

Oggi i ricercatori si interrogano sulle strategie che finora si sono dimostrate più efficaci nell’arginare la diffusione dell’epidemia. Pur nella consapevolezza che azzardare paragoni non è semplice a causa dei molteplici fattori epidemiologici, sociali e culturali che possono decretare il successo o il fallimento degli interventi, diversi gruppi di ricerca sono all’opera nel tentativo di comprendere quali lezioni possiamo trarre dalle esperienze vissute nei Paesi più colpiti dal contagio. A differenza delle prime settimane della pandemia, quando si potevano fare solo ipotesi sugli effetti delle misure di contenimento, ora i modelli possono basarsi sui dati reali raccolti nei diversi Paesi in seguito agli interventi effettivamente disposti, dalla chiusure delle scuole agli adesivi applicati sui marciapiedi per segnalare le distanze da rispettare.

I risultati convergeranno in un database realizzato dagli esperti della London School of Hygiene and Tropical Medicine per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La speranza è che possano emergere indicazioni preziose per gestire la complicata fase di convivenza con la COVID-19. In particolare, racconta la rivista scientifica Nature, l’intento è comprendere come l’aggiunta o la rimozione delle misure di restrizione influenzi la circolazione virale, ricavando informazioni cruciali per governare l’uscita in sicurezza dal lockdown e per affrontare l’eventualità di una seconda ondata pandemica.

Nel frattempo, diverse analisi hanno già provato a discernere quali strategie hanno funzionato meglio: la rivista Forbes, per esempio, ha pubblicato persino le “classifiche” dei governi più virtuosi realizzate dal consorzio Deep Knowledge Group in collaborazione con gli esperti del King’s College di Londra. In attesa che le conoscenze siano consolidate da analisi rigorose, alcune indicazioni cominciano a emergere. Senza pretesa di esaustività, ecco quel che abbiamo imparato da ciò che è stato fatto nei Paesi che finora hanno gestito meglio l’epidemia di COVID-19.

Corea del Sud

Il cosiddetto “modello coreano” è stato forse il più elogiato nel discorso pubblico, soprattutto per il successo nel contenere l’epidemia conseguito grazie a un elevato numero di tamponi (fino a 15 mila al giorno) e un’efficace tracciamento tecnologico della catena del contagio. Il cosiddetto contact tracing di tutti i casi sospetti si è basato su più sistemi di sorveglianza integrati fra loro: la localizzazione dei telefoni cellulari, le transazioni delle carte di credito e le numerose telecamere a circuito chiuso dislocate in tutto il Paese. Come racconta Jung Won Sonn sulle colonne di The Conversation, in Corea del Sud si registra la più alta proporzione al mondo di transazioni senza contanti, ci sono più cellulari che persone e almeno otto milioni di videocamere di sorveglianza: già dieci anni fa, chiunque si spostasse in qualsiasi regione del Paese veniva ripreso in media una volta ogni nove secondi.

È stato soprattutto grazie al dispiego di questo invasivo apparato tecnologico che è stato possibile fermare il contagio (dopo circa 10.800 casi confermati e 254 vittime) senza ricorrere al lockdown e nonostante l’epidemia si fosse già estesa a un numero elevato di persone. Tuttavia il sistema ha funzionato perché non aveva nulla di improvvisato: il piano di risposta rapida alle pandemie era stato messo a punto dopo l’esperienza vissuta nel 2003 con la SARS, e in dicembre era stato collaudato mediante un’esercitazione. Nella gestione delle emergenze la pianificazione in tempo di pace è l’elemento che più di ogni altro è in grado di fare la differenza. Il modello coreano, tuttavia, non si cura della privacy dei cittadini e perciò difficilmente potrebbe essere esportato nel contesto europeo.

Taiwan

Sebbene in queste settimane si sia parlato di Taiwan più per ragioni geopolitiche – il piccolo Stato insulare non è infatti riconosciuto dalla Cina e non fa parte dell’OMS per il veto imposto da Pechino – il governo di Taipei, nonostante la vicinanza con i confini cinesi, è riuscito a evitare che l’epidemia dilagasse: su una popolazione di 23 milioni di persone (poco meno del Nord Italia) si sono infatti registrati appena 438 casi e 6 vittime. Un successo ottenuto grazie a una risposta immediata ai primi segnali di allarme ma, come in Corea del Sud, senza alcun lockdown: scuole, aziende e negozi sono sempre rimasti aperti. Già il 31 dicembre, lo stesso giorno in cui la Cina informava l’OMS dei primi casi di polmonite anomala, Taiwan aveva cominciato a monitorare i viaggiatori provenienti da Wuhan. A quel punto si è messo in moto il Central Epidemic Command Center per la gestione delle epidemie e sono stati applicati i protocolli di sicurezza elaborati dopo l’epidemia di SARS del 2003.

La rivista medica Jama ha pubblicato l’elenco completo delle misure intraprese dal governo di Taipei. È stata data grande importanza alla ricerca proattiva delle persone contagiate (attivata addirittura prima che Wuhan entrasse in quarantena) e all’impiego obbligatorio delle mascherine, la cui produzione è stata finanziata e controllata dallo Stato, arrivando in poco tempo a 10 milioni di pezzi al giorno; è stato quindi stabilito un prezzo di vendita di 20 centesimi di dollaro affinché fossero disponibili per tutti e pene fino a sette anni di carcere per chi speculava sul prezzo. E per chi diffondeva fake news sull’epidemia, sono state previste multe salatissime: fino a 100 mila euro.

Nuova Zelanda

Il 4 maggio la Nuova Zelanda ha raggiunto l’agognato traguardo di “zero contagi” dopo avere registrato 1.486 casi e 20 vittime. L’obiettivo del governo non è mai stato il contenimento bensì la completa soppressione del contagio. Ancora una volta l’impresa sembra essere riuscita giocando d’anticipo con misure molto restrittive sull’ingresso nel Paese e l’imposizione del lockdown quando i contagi erano appena un centinaio. La capacità di analizzare fino a 8.000 tamponi al giorno (come in Lombardia, che però ha il doppio degli abitanti) ha inoltre favorito un contact tracing capillare che, secondo il direttore della Sanità pubblica Ashley Bloomfield, avrebbe addirittura permesso di risalire all’origine di tutti i casi confermati.

La curva epidemica è scesa verso lo zero in appena due settimane, ma il governo non si è accontentato e ha mantenuto le restrizioni finché non è stato possibile sopprimere completamente la trasmissione del coronavirus. Nel complesso, però, questa strategia appare più facilmente applicabile in un territorio con le caratteristiche della Nuova Zelanda: un’isola raggiungibile soltanto per via aerea o per nave e con una popolazione di appena cinque milioni di abitanti.

Portogallo

Il successo del Portogallo nel contenere l’epidemia è stato forse una sorpresa nel panorama europeo. Nonostante il Paese iberico abbia una popolazione piuttosto anziana e non possa vantare un sistema sanitario di eccellenza (il numero di posti letto in terapia intensiva per abitante è la metà di quello della Spagna e sette volte più basso di quello della Germania), finora ha registrato poco più di 25.500 contagi e 1.063 decessi; per confronto, la Spagna conta oltre 218 mila contagi e 25.428 morti.

Secondo un’analisi di Politico, questo risultato si deve alla decisione del governo di Lisbona di imporre restrizioni che, pur meno stringenti di quelle adottate in altri Paesi europei, sono state introdotte quando il numero di contagi era ancora molto limitato. Lo stop alle attività non essenziali è entrato in vigore il 18 marzo con appena 448 casi confermati; per confronto, in Italia il lockdown è stato introdotto il 10 marzo quando si contavano già oltre novemila contagi. È possibile che il maggiore isolamento geografico del Portogallo possa avere dato una mano, facendo sì che l’epidemia arrivasse nel Paese con circa un mese di ritardo rispetto all’Italia e alla Spagna.

L’esecutivo socialista di Antonio Costa ha infine potuto contare su un patto di collaborazione con l’opposizione, che ha senz’altro favorito l’accettazione sociale e il rispetto delle restrizioni decise del governo. Durante il dibattito sullo stato di emergenza, il leader dell’opposizione di centro-destra Rui Rio aveva dichiarato: «Per me, in questo momento, il governo non è l’espressione di un partito avversario, ma la guida dell’intera nazione che tutti abbiamo il dovere di aiutare. Non parliamo più di opposizione, ma di collaborazione. Signor primo ministro Antonio Costa conti sul nostro aiuto. Le auguriamo coraggio, nervi d’acciaio e buona fortuna perché la sua fortuna è la nostra fortuna».

Germania

Il fatto che la Germania abbia gestito con successo l’emergenza non sorprende più di tanto considerata la robustezza del sistema sanitario tedesco. Tuttavia si è discusso a lungo sulle ragioni che hanno permesso di contenere in modo significativo il numero delle vittime: circa 7 mila a fronte di oltre 166 mila contagi; un tributo pur sempre tragico, ma sei o sette volte inferiore rispetto ad altri Paesi europei come Italia, Francia e Spagna.

Di certo la Germania rientra fra le nazioni che ha adottato misure di controllo precoci e severe. Il lockdown nazionale è stato disposto con più anticipo rispetto all’aumento dei casi e il contact tracing è stato gestito in modo efficace. Tuttavia, come raccontano Luca Carra e Sergio Cima su Scienza in Rete, le autorità sanitarie tedesche non sono molto generose nel fornire i dati sull’epidemia, a partire dal numero di tamponi eseguiti e dalla mortalità per tutte le cause, rendendo più complicato fare analisi indipendenti.

In ogni caso, più che la maggiore disponibilità di posti letto nelle terapie intensive, che non sono stati mai prossimi alla saturazione, un ruolo cruciale potrebbe averlo giocato la maggiore protezione degli anziani, a cui è stato chiesto di isolarsi fin dagli esordi dell’epidemia. Il risultato è che l’età media dei contagiati in Germania è di 50 anni, contro i 57 della Francia, i 59 della Spagna e i 62 dell’Italia: un fattore forse decisivo considerato che la gran parte delle vittime europee si registra tra la popolazione di età più avanzata.

Svezia

Una strategia molto discussa è stata infine quella seguita dalla Svezia, che ha puntato sulla responsabilizzazione dei cittadini anziché sull’imposizione delle restrizioni. Il governo di Stoccolma ha vietato gli assembramenti di più di cinquanta persone, gli eventi pubblici, le manifestazioni sportive e l’ingresso ai musei, ma le scuole sono rimaste parzialmente aperte, mentre non sono state imposte limitazioni alle attività commerciali e produttive, né agli spostamenti delle persone, che sono stati soltanto scoraggiati.

Una scelta favorita dalla fiducia di cui godono il governo e le istituzioni sanitarie nel Paese scandinavo, ma dettata anche dalla legislazione svedese. Come infatti ha spiegato a Nature Anders Tegnell, epidemiologo dell’agenzia indipendente di salute pubblica che ha formulato le raccomandazioni per il governo, le leggi svedesi sulle malattie trasmissibili si basano sul ricorso a misure volontarie e sulla responsabilità individuale, impedendo di imporre un lockdown a un’intera area geografica.

I risultati non sono da primato, ma non si è assistito neppure all’ecatombe che alcuni osservatori avevano previsto: finora si sono registrati quasi 23 mila casi e 2.769 vittime. Per confronto, in Belgio, che ha una popolazione paragonabile, i morti sono stati quasi il  triplo (8.016), a fronte di restrizioni molto più rigorose. Rispetto però agli altri Paesi scandinavi, che hanno optato per il lockdown, in Svezia si sono contate 22 vittime ogni 100 mila abitanti, in Danimarca solo 7, appena 4 in Finlandia e in Norvegia.

Forse la Svezia non sarebbe stata neppure inclusa in questo breve elenco (peraltro non esaustivo) dei Paesi che hanno meglio gestito la pandemia, se non fosse per gli inattesi elogi ricevuti il 29 aprile dall’OMS, che ha indicato il Paese scandinavo come modello per la fase di convivenza con il nuovo coronavirus. Secondo Mike Ryan, responsabile del programma di emergenze sanitarie dell’OMS, ciò che la Svezia ha fatto di diverso è basarsi su un rapporto di fiducia con la cittadinanza, che l’OMS considera essenziale per gestire la “nuova normalità” senza altri lockdown, insostenibili per l’economia e per la tenuta sociale. Non è però mancato chi ha fatto notare che, per adottare con il modello svedese, bisognerebbe essere svedesi.

Lezioni per il futuro

Da questo scenario emerge che la capacità di gestire con successo l’epidemia è strettamente correlata alla capacità di reagire rapidamente ai primi segnali di allerta, con protocolli collaudati per gestire il contact tracing e implementare le misure restrittive quando il numero di contagi è ancora basso. Come hanno dimostrato queste drammatiche settimane, è inoltre cruciale proteggere le fasce più a rischio, a partire dagli operatori sanitari e dagli anziani, potenziando la medicina territoriale e disponendo di riserve adeguate di dispositivi di protezione.

Tuttavia, probabilmente non esiste una strategia più efficace in assoluto, ma quella che meglio si adatta a ogni specifico contesto socioculturale, che può indirizzare la risposta alla minaccia anche in modalità inattese. Secondo gli studi preliminari dell’Università di Oxford (Gran Bretagna), per esempio, le nazioni a basso reddito hanno spesso introdotto misure più rigorose e precoci rispetto alle nazioni ad economia avanzata: una maggiore cautela dettata dalla consapevolezza di non poter contare su sistemi sanitari efficienti, e quindi dalla necessità di affidarsi più al contenimento che alla mitigazione. Per contro, nazioni ricche come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno probabilmente sopravvalutato la loro capacità di fronteggiare l’epidemia, trovandosi più impreparate del previsto. La minore incidenza nei Paesi a basso reddito può inoltre essere stata favorita dal loro maggiore isolamento, che li ha protetti da un’epidemia che si sposta lungo le rotte commerciali.

Dalla ricerca avremo presto conferme, smentite e altre indicazioni importanti per capire quali strategie potranno essere più utili per indirizzare le politiche pubbliche dei prossimi mesi. «Senza sapere che cosa funziona e quanto è efficace, è difficile gestire il dopo», ha detto a Nature Rosalind Eggo, matematica della London School of Hygiene and Tropical Medicine. A cui si aggiunge il problema di tenere conto sia dei costi economici, psicologici e sociali di ogni decisione, sia delle profonde differenze tra i contesti socioculturali in cui gli interventi vengono applicati. Perché è da questo che dipenderà il comportamento delle persone e dunque, in definitiva, il successo o il fallimento di ogni strategia ideata per ostacolare un virus che si diffonde attraverso i nostri corpi sempre in movimento.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).