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Prebiotici e probiotici nella dieta del cavallo

Gli integratori per l'alimentazione equina sono ampiamente diffusi ma le evidenze sull'efficacia, in particolare preventiva, non sono così solide.

Chi non vorrebbe “rinforzare” il proprio cavallo, magari fin da puledro, preparandolo anche a gestire meglio un’eventuale patologia grazie a una salute intestinale di ferro? Non a caso, chiunque frequenti un maneggio si imbatte spesso in barattoli e boccette con integratori di vario tipo: i probiotici e i prebiotici, che troviamo in vendita per il rinforzo del microbiota intestinale – nella gestione quotidiana e preventivamente, ad esempio prima di affrontare lo stress di un viaggio – , sono tra questi. Ma cosa dice la ricerca veterinaria rispetto a questi prodotti? Sono davvero consigliabili e sicuri per il cavallo, sulla base di evidenze solide?

Così come per i probiotici – che vedremo poi – tra i limiti dei pochi studi condotti sui prebiotici, che rendono difficile confrontare i dati e stabilire se modificare il microbiota equino a scopi preventivi sia una valida opzione, c’è la gran variabilità nella scelta degli organismi testati, nel dosaggio e nella dieta degli animali inclusi negli studi.

Un recente studio, pubblicato su PLOS ONE da un gruppo di ricercatori della Martin Luther University Halle-Wittenberg e della University of Veterinary Medicine Hannover, invita ad esempio alla cautela nell’impiego di prebiotici: studiando un piccolo campione di 12 cavalli, gli autori hanno scoperto che i supplementi oggi in vendita non necessariamente arrivano “illesi” all’intestino, dove dovrebbero svolgere il proprio compito agendo sulla composizione del microbiota. Vengono invece scomposti già a livello dello stomaco, dove il rischio è di causare danni alla mucosa gastrica.

Cosa sono e perché si usano i prebiotici

Ma facciamo un passo indietro: i prebiotici sono integratori aggiunti spesso alla dieta dei cavalli per migliorarne lo stato di salute. Non vanno confusi con i probiotici – che menzioneremo poi – e si tratta di composti contenuti negli alimenti che dovrebbero indurre l’attività e la proliferazione di microrganismi come i batteri e i funghi (ad esempio nel tratto gastrointestinale), favorendone la crescita e portando effetti benefici all’ospite. Identificati e studiati a partire dai primi anni ’90, la definizione ufficiale è stata rivisitata nel 2016, a opera di un gruppo di esperti convocati dall’International Scientific Association for Probiotics and Prebiotics: da allora, i prebiotici sono “un substrato utilizzato in modo selettivo dai microorganismi ospiti portando così benefici per la salute”.

La nuova definizione ha permesso di includere nell’insieme composti diversi dai carboidrati, impieghi che esulano dal solo tratto gastrointestinale e molto altro. Tra i più noti ci sono i FOS, frutto-oligosaccaridi, inulina in particolare. “I cavalli hanno un microbioma di base piuttosto piccolo e non molto variegato”, spiega in un comunicato Annette Zeyner, tra gli autori dello studio sui 12 cavalli, che a MLU guida il team di nutrizione animale. “Per questo sono particolarmente suscettibili ai disturbi di tipo digestivo”, eppure la letteratura scientifica sugli effetti degli integratori non è, a oggi, particolarmente ricca.

Sullo sfondo – e da includersi nelle variabili che rendono difficile uniformare e confrontare i dati – va ricordato che questo tipo di “suscettibilità” può avere molto a che fare con la gestione dei cavalli: le loro necessità, etologiche e fisiologiche, non sempre vengono rispettate perché di rado coincidono con il nostro modo di approcciare l’attività equestre. Tra queste ci sono la socialità, la locomozione, un’alimentazione adeguata, un ambiente stimolante.

Come ci spiegava qui Paolo Baragli, medico veterinario esperto in comportamento animale e dottore in Fisiologia Equina del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Pisa, in natura “un cavallo percorre anche 20-25 km al giorno solo pascolando – e c’è una funzione fisiologica in questo. Se i cavalli non vivono all’aperto, liberi di muoversi secondo le proprie esigenze, allora bisogna trovare un equilibrio”.

Se i prebiotici non arrivano intatti all’intestino

Per lo studio sono stati indagati gli effetti di prebiotici a base di topinambur (JAM, jerusalem artichoke meal), ricchi di FOS e inulina: sei cavalli hanno seguito una dieta integrata mentre altri sei, il gruppo di controllo, il normale mangime con un placebo. Poi i ricercatori hanno analizzato i batteri nel tratto digestivo di entrambi i gruppi, per scoprire che i prebiotici somministrati stavano agendo decisamente troppo presto. Fermentavano a livello dello stomaco, a opera dei microrganismi che lo abitano, ben prima di raggiungere l’intestino. La fermentazione porta alla creazione di acidi organici, aggiunge Maren Glatter, coordinatrice dello studio: nell’intestino non sarebbe un problema, ma nello stomaco questi acidi possono danneggiare la mucosa.

Per quanto riguarda la diversità batterica del tratto digestivo nel complesso, sottolinea Zeyner, è di fatto aumentata, ma resta il fatto che “se usati nella forma attuale i prebiotici fanno più male che bene”. Le sostanze dovrebbero essere trattate in modo tale da arrivare illese all’intestino, per sortire l’effetto voluto e non rischiare di causare danni ad altre parti dell’apparato digerente.

I risultati dovrebbero invitare a maggior cautela nell’impiego di prebiotici: anche se in corso da diversi anni, gli studi sono ancora pochi e non mostrano effetti positivi solidi, ma soprattutto non ne escludono categoricamente di negativi. Glatter indaga gli effetti dei prebiotici sulla salute equina da tempo: già nel 2016 aveva segnalato come diversi supplementi non solo avessero effetti ben più modesti di quelli attesi ma venissero degradati già nello stomaco, aumentando il rischio di ulcere, mentre nel 2018 aveva esplorato gli effetti su glicemia e livelli di insulina dell’impiego di prebiotici per scoprire se potessero essere utili nell’alimentazione di cavalli con problemi di insulino-resistenza (ancora non lo sappiamo).

E i probiotici?

Lactobacillus, Enterococcus, Bacillus, Streptococcus, Bifidobacterium: sono tutti considerati probiotici adatti per i cavalli, che dovrebbero raggiungere illesi l’intestino crasso e lì svolgere il loro effetto benefico sulla salute dell’animale – soprattutto a scopo preventivo. Eppure, come sottolinea anche una review su Animal Microbiome, così come accade per gli esseri umani non ci sono così tante evidenze che ne giustifichino l’impiego su un cavallo sano.

Sempre con una serie di limiti, gli studi hanno risultati più incoraggianti in caso di patologie – ad esempio nel trattamento di enterocoliti in cavalli adulti o diarrea nei puledri – ma i probiotici non hanno finora mostrato effetti preventivi degni di nota. Uno studio su 38 puledri, ad esempio, ha analizzato i campioni fecali dopo l’assunzione senza trovare modifiche significative nel microbiota. Ma facciamo anche qui un passo indietro: cosa intendiamo per probiotico e cosa sappiamo finora?

La definizione data da FAO e OMS nel 2001 li identifica come “ceppi vivi di una specifica selezione di microrganismi che, quando amministrati in quantità adeguate, portano benefici alla salute dell’ospite”. Il concetto di adeguato ci dice poco ma sappiamo che – in base alle diverse legislazioni, che regolano anche approvazione e messa in commercio – ogni grammo di probiotico deve contenere una certa concentrazione di microrganismi. In generale deve raggiungere illeso l’intestino e lì “favorire l’equilibrio della flora batterica intestinale” (prendiamo in prestito la dicitura autorizzata dall’EFSA, quella che troviamo anche su alcuni yogurt).

Nel 2016 usciva un’ampia review sull’effetto dei probiotici sulla salute umana, che concludeva come nelle persone sane – che mangiano in modo equilibrato, vario e con ridotto apporto di alimenti altamente processati – non sortiscano un effetto significativo. Eppure FederSalus riporta che il valore generato dai probiotici in farmacia in circa un anno è pari a 500 milioni di euro. Il consumatore continua ad acquistare “per prevenzione” anche quando non è necessario, quando potrebbe invece investire più tempo nel curare la propria alimentazione o come automatismo dopo una terapia antibiotica.

Tornando ai cavalli, un buon riferimento resta una review degli studi pubblicata sul Journal of Veterinary Internal Medicine nel 2014. Gli autori concludevano che le evidenze per l’impiego di probiotici nel trattamento di patologie equine erano ancora deboli, e che l’obiettivo di svilupparne uno solo che risulti efficace per diverse patologie non è realistico, data la grande diversità dei vari ceppi batterici. Le formulazioni dovrebbero essere specifiche, basate sulle caratteristiche di ogni singolo ceppo e – prima di essere messe in commercio – validate per composizione e concentrazione da trial clinici randomizzati e controllati con placebo. In modo da garantire l’efficacia e la sicurezza per la salute dei cavalli, ovvero la cosa più importante.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".