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Dalla Siberia a Chernobyl, gli incendi del 2019-2020

Gli incendi intorno alla foresta di Chernobyl si vanno ad aggiungere a quelli in Siberia, Amazzonia, Australia: tra il 2019 e il 2020, gli incendi hanno assunto una dimensione globale. Quali sono i punti in comune? 

Siberia (con Canada e Alaska), Amazzonia, poi Australia. Quelli che hanno interessato la foresta di Chernobyl ad aprile 2020 sono gli ultimi di una serie d’incendi che, nel corso di pochi mesi, ha fatto bruciare grandi estensioni di boschi e bush. Quali sono i punti in comune? E, prima ancora, cos’è successo esattamente a Chernobyl? Ne abbiamo parlato con Raffaella Lovreglio, ricercatrice del Dipartimento di Agraria dell’Università di Sassari e membro del gruppo di lavoro Gestione Incendi Boschivi della Società Italiana di Selvicoltura ed Ecologia Forestale.

Nella foresta intorno a Chernobyl

Gli incendi a Chernobyl sono iniziati ai primi di aprile: diversi focolai, accesi in vari punti intorno alla zona di esclusione, l’area che circonda per un raggio di circa 30 chilometri l’ex centrale nucleare. Nei giorni seguenti, il fronte di fiamma si è avvicinato sempre di più all’ex centrale, raggiungendo la Foresta rossa, all’interno della zona di esclusione (il nome è dovuto al colore brunastro assunto dai pini morti dopo l’esplosione della centrale). «Gli incedi in questa zona non sono infrequenti: solo nel 2010 ce ne sono stati 54 in aree contaminate, e oltre 300 altrove», spiega Lovreglio. «Per la maggior parte sono legati ad attività antropiche, come la bruciatura di residui, o a cause naturali come i fulmini. Ma la presenza di così tanti inneschi in punti diversi fa sospettare che gli incendi di quest’anno possano essere di origine dolosa».

«Oltre alle presunte cause che hanno determinato i roghi, comunque, bisogna considerare i fattori predisponenti che favoriscono, ancor più negli ultimi anni, la maggior frequenza di questi incendi», continua la ricercatrice. «Tra questi, le condizioni estremamente siccitose e l’accumulo di biomassa combustibile dovuta all’assenza di gestione forestale». Anche il tipo di vegetazione, caratterizzata dalla presenza di pini e betulle cresciuti nelle aree dedicate un tempo ai pascoli, contribuisce ad aggravare il pericolo d’incendi.

Gli incendi visti dai satelliti

Le immagini satellitari mostrano che, al 17 di aprile, gli incendi avevano percorso un’area di 20.000 ettari, rendendoli, riporta il sito della NASA, i peggiori da quando si è verificata l’esplosione della centrale nucleare. E si sono avvicinati a quest’ultima – in particolare al reattore 4.

«Qualche anno fa, il reattore è stato ricoperto da una struttura di contenimento. Il pericolo non è quindi correlato tanto alla centrale in sé quanto ai radionuclidi che, sviluppatisi durante l’incendio del 1986, si sono depositati al suolo, contaminando l’ambiente circostante», spiega Lovreglio. «Un incendio potrebbe facilmente provocarne la dispersione. Uno studio pubblicato nel 2014, nel quale sono stati analizzati tre diversi possibili scenari, ha evidenziato l’aumento del rischio all’aumentare degli incendi». Nel caso degli incendi di quest’anno, comunque, secondo un comunicato dell’International Atomic Energy Agency, l’aumento della radioattività è stato molto contenuto e non ha posto rischi per la salute umana.

Nel periodo degli incendi, che sono stati estinti per la gran parte nell’arco di una decina di giorni, è invece peggiorato l’inquinamento atmosferico, che il 16 aprile, a Kiev, è stato registrato da iQAir come il peggiore al mondo.

Gli incendi a dimensione globale

«Il 2019 verrà ricordato come l’anno in cui gli incendi, dalla Siberia all’Amazzonia e all’Australia, hanno assunto una dimensione globale. Siamo assistendo a un cambiamento epocale, che potrebbe indurci a chiamare il periodo in cui viviamo con il nome di Pirocene», commenta Lovreglio. Come ha scritto il ricercatore Giorgio Vacchiano su LifeGate, infatti, i cambiamenti climatici rischiano di generare un aumento degli incendi in tutto il mondo, che possiamo già osservare nelle zone più soggette ai fenomeni di siccità, e che è destinato ad aggravarsi. «Negli ultimi due secoli, l’aumento delle attività antropiche, che hanno modificato l’uso del fuoco negli ambienti rurali e ha determinato l’aumento dei gas serra nell’atmosfera, e l’alterazione del clima a scala planetaria hanno generato un aumento dei grandi incendi in tutto il mondo. Anche per gli incendi di Chernobyl le dinamiche negli ultimi anni sono correlate alla maggior presenza di combustibile infiammabile, alle attività antropiche e alle anomali condizioni di siccità connesse al cambiamento climatico», continua la ricercatrice.

Gli incendi in Australia, di cui OggiScienza ha parlato qui, hanno potuto essere messi sotto controllo solo a febbraio, dopo che avevano danneggiato un’area di oltre 8 milioni di ettari tra News South Wales, Victoria, Queensland, Western e South Australia e l’Australian Capital Territory. La situazione è diversa per l’Amazzonia. Secondo uno studio pubblicato a gennaio, infatti, gli incendi hanno percorso un’area superiore alla media in alcuni Stati come Venezuela e Bolivia, ma non in Brasile, dove, sebbene maggiore rispetto al 2018, l’area bruciata è stata nella media del periodo precedente», spiega Lovreglio.

Dati che restano comunque preoccupanti se si considera che, secondo uno studio pubblicato su Scientific Reports (del quale abbiamo parlato qui), l’atmosfera della foresta amazzonica è diventata meno umida. Questo fenomeno è dovuto sia agli alti livelli di gas serra sia agli incendi appiccati per il disboscamento: pertanto in quest’ambiente i processi di deforestazione con l’uso del fuoco alimentano in maniera diretta il cambiamento climatico a livello locale.

«Quasi tutti gli eventi che si sono verificati negli ultimi anni sono strettamente connessi alla crisi climatica e alle sue conseguenze sulla circolazione dell’atmosfera terrestre e sul verificarsi di siccità prolungate, in Italia come nell’Artico», continua la ricercatrice. E come è avvenuto in Australia: come ha raccontato OggiScienza, infatti, le condizioni favorevoli che ne hanno favorito la propagazione sono connesse a fenomeni più complessi riconducibili ai cambiamenti climatici.

Cambiamento climatico, attività antropica e incendi

Allargando la prospettiva alla scala globale, però, la relazione tra i cambiamenti climatici e gli incendi può essere molto complessa. «I diversi ecosistemi non rispondono nello stesso modo ai cambiamenti climatici, che a loro volta non sono uguali nelle differenti aree del mondo. Sebbene infatti si preveda un aumento globale della temperatura, la velocità con cui avverrà non è uguale ovunque. E se da una parte alcune aree, come l’Europa meridionale, potrebbero essere più soggette alla siccità, in altre potrebbero aumentare le precipitazioni, sia di acqua sia di neve», spiega Lovreglio. Riguardo a queste ultime, il sito di Carbon Brief riporta che, sebbene vi sia minor accordo su come e dove cambieranno le precipitazioni rispetto alle temperature, i modelli indicano con una certa uniformità che il Pacifico tropicale e le aree a elevate altitudini saranno caratterizzate da un maggior aumento delle precipitazioni, che diminuiranno invece nell’Africa meridionale e nel Mediterraneo.

Va poi considerato il “fattore umano“. Gli esseri umani possono non solo innescare – volontariamente o involontariamente – gli incendi, ma influiscono più o meno direttamente anche sulla loro possibile propagazione, per esempio con l’abbandono delle aree agricole (che vengono poi invase dagli arbusti) e con la diffusione di specie vegetali estremamente infiammabili. Come abbiamo raccontato qui, infatti, alcune specie sono più prone a infiammarsi: è il caso dell’eucalipto, piantato soprattutto per la produzione di carta, cui sono stati correlati gli incendi in Portogallo del 2017.

Più prevenzione

Anche per questa ragione la strategia per la lotta agli incendi non può basarsi solo sulla loro estinzione. «Una strategia che integra l’estinzione con azioni preventive di gestione del bosco, mirate a renderlo meno suscettibile ai grandi incendi, è più efficace nel mitigare il rischio», spiega ancora Lovreglio. «Le azioni mirate di “selvicoltura preventiva” consentono infatti di ridurre la continuità e l’infiammabilità della vegetazione nei punti critici e di modificare il mosaico dei diversi combustibili presenti , permettendo anche ai mezzi di estinzione di operare in modo più sicuro ed efficace».

E intanto, «l’obiettivo principale che abbiamo oggi è quello di ridurre le nostre emissioni con comportamenti collettivi e ad alto impatto, sforzandoci di vedere l’impronta del cambiamento climatico, delle nostre produzioni e (soprattutto) dei nostri consumi in quello che sta succedendo. Gli incendi che ieri hanno colpito la Siberia e l’Australia, l’Amazzonia e la foresta di Chernobyl, domani interesseranno con elevata probabilità altri ecosistemi, altre persone », conclude la ricercatrice.


Leggi anche: Gli incendi in Australia mostrano che la nostra casa è in fiamme

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: NASA

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.