IN EVIDENZASALUTE

Come evolverà la pandemia di Covid-19 in Italia e nel mondo

Il coronavirus è mutato e avremo un’estate tranquilla? Ci sarà una seconda ondata in autunno? Quando si esaurirà l’epidemia? Le risposte (e i dubbi) degli scienziati su quel che ci aspetta

Nessuno ha la sfera di cristallo ma non ci facciamo scrupoli nel chiedere agli scienziati di scrutare il futuro per placare le nostre incertezze. È comprensibile: ora che la fase più acuta dell’emergenza è alle spalle, avvertiamo il bisogno di guardare avanti e riprendere in mano le nostre vite. I dubbi però non mancano. Davvero SARS-COV-2 è mutato e le corsie degli ospedali sono ormai vuote? Possiamo prenotare le ferie senza il timore di nuove chiusure? A settembre alunni e studenti potranno tornare tra i banchi o dovremo affrontare una seconda ondata pandemica? Quanto tempo passerà prima che la Covid-19 divenga solo un brutto ricordo?

Estate italiana

In Italia la curva epidemica sembra declinare verso un placido e rassicurante plateau. Sebbene si contino ancora centinaia di contagi giornalieri e gli ospedali non si siano affatto svuotati (le persone tuttora ricoverate sono oltre 4.700 e 283 si trovano in terapia intensiva), l’andamento è positivo: il numero di pazienti dimessi supera quello dei nuovi ricoveri e sempre meno persone sviluppano sintomi gravi. Tutti i segnali sembrano indicare che la prima ondata pandemica, almeno in Italia, si stia esaurendo.

Anche i risultati del monitoraggio effettuato dal ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sugli indicatori della fase 2 sono confortanti, ma al tempo stesso evidenziano che «in Italia l’epidemia non si è conclusa». I dati relativi alla settimana del 25-31 maggio mostrano che il lockdown ha permesso di arginare la diffusione del contagio. In tutte le regioni l’indice di trasmissibilità Rt è inferiore a uno: significa che grazie alle misure di contenimento il tasso di contagiosità è sceso sotto la soglia che porta l’epidemia a spegnersi. Ma è presto per cantare vittoria. Nella relazione si legge che «in quasi tutta la Penisola sono documentati focolai di trasmissione attivi» e che «in alcune parti del Paese la circolazione di SARS-CoV-2 è ancora rilevante».

In questo quadro non privo di ombre ma decisamente meno fosco possiamo dunque aspettarci un’estate relativamente tranquilla o è meglio tenere ancora la guardia alta? Considerando i tempi di incubazione del virus, per rispondere con qualche indizio in più bisognerà attendere i dati dei prossimi giorni, che consentiranno di valutare gli effetti della riapertura del 18 maggio*, e poi almeno altre due settimane per sapere se il via libera agli spostamenti tra le regioni farà aumentare i contagi oggi in declino.

In ogni caso non sarà il caldo a tenere sotto controllo l’epidemia: se è plausibile che le goccioline che trasportano il virus possano disidratarsi più in fretta sotto il sole dell’estate, e che passare più tempo all’aperto o con le finestre spalancate potrà darci una mano, secondo la maggior parte degli esperti saranno soprattutto i comportamenti di autoprotezione che abbiamo acquisito in questi mesi a fare la differenza. Nel bene e nel male, quest’anno andremo in vacanza con il coronavirus.

Non è il virus, siamo noi

Al momento non esistono evidenze che le mutazioni riscontrate nel genoma di SARS-COV-2 abbiano portato a ceppi virali meno contagiosi o meno letali. Più del virus, sono mutate le nostre abitudini. I soggetti vulnerabili, a partire dagli anziani, oggi sono più isolati e protetti. E al di là delle polemiche sulla movida, le persone sono molto più caute e attente. I virologi ipotizzano inoltre che le mascherine e il distanziamento sociale riducano la carica virale a cui si è esposti se si entra in contatto con una persona infetta, mitigando così sia il rischio di contagio sia quello di sviluppare sintomi gravi. In questi mesi i medici hanno inoltre imparato a riconoscere precocemente le infezioni e a trattare con più efficacia i pazienti ricoverati.

Come è già avvenuto in Cina o in Corea del Sud, nel gestire dell’epidemia siamo dunque passati dalla cosiddettafase del martello”, con il ricorso a un rigido lockdown per appiattire la curva del contagio, alla “fase della danza” con il coronavirus, che potrebbe essere contrassegnata da un’alternanza di aperture e chiusure delle attività socioeconomiche a seconda dell’andamento dei contagi.

La pandemia nel mondo

Nel mondo, tuttavia, le cose non stanno andando molto bene. Le persone contagiate sono più di 7 milioni, le vittime oltre 400 mila. E quel che è peggio, il numero delle infezioni è in aumento: da una settimana a questa parte, cresce a un ritmo di oltre 100 mila nuovi casi al giorno. In altre parole, anche se le misure di contenimento hanno senz’altro contribuito a rallentare la diffusione di SARS-COV-2, la pandemia continua a dilagare.

Dopo essere passato dalla Cina all’Europa, e dall’Europa agli Stati Uniti, da fine maggio l’epicentro dell’epidemia si è spostato in America Latina, dove molti sistemi sanitari sono allo stremo. Solo nelle ultime 24 ore nel continente si sono registrati oltre 82 mila contagi. Ma preoccupa anche la situazione in Africa e in Medio Oriente, in progressivo peggioramento.

Come ha raccontato il Washington Post, né il clima più caldo, né la popolazione più giovane e neppure il maggior tempo a disposizione per prepararsi all’arrivo del coronavirus hanno impedito il diffondersi dell’epidemia in Sudamerica. Sia che i governi abbiano sminuito il rischio per non frenare l’economia, come accaduto in Brasile e il Messico, sia che abbiano imposto un rigido lockdown fin dai primi casi come accaduto invece in altre nazioni come il Perù – seppur con mille difficoltà dovute alla scarsa fiducia nelle istituzioni e a situazioni di povertà diffusa – si è avuto una drammatica esplosione dei contagi e delle vittime.

L’incognita autunnale

Quel che accade in America Latina dimostra che il virus non è affatto sparito, e che gli sviluppi della pandemia restano in gran parte imprevedibili. Gli esperti considerano però molto concreto il rischio di una seconda ondata di contagi in autunno. Durante l’audizione parlamentare del 29 maggio scorso, anche il presidente dell’ISS, Silvio Brusaferro, ha confermato che si tratta di un’ipotesi plausibile perché durante la stagione fredda passiamo più tempo al chiuso e, a partire dal mese di ottobre, aumenta il rischio delle infezioni virali trasmesse per via aerea.

Purtroppo non potremo già contare su un vaccino, che neppure nel più roseo degli scenari sarà pronto prima della primavera del 2021. È invece possibile che, ben prima del vaccino, la ricerca scientifica possa offrirci un antivirale o un antinfiammatorio per trattare i pazienti affetti da COVID-19; i primi risultati delle sperimentazioni in corso sono attesi proprio per il mese di ottobre. Altrimenti dovremo affrontare la prossima stagione fredda continuando a difenderci con sapone, mascherine e distanziamento sociale. Ma sarà cruciale aver rimediato alle troppe carenze emerse in questi mesi: serve potenziare la medicina territoriale, disporre di un sistema efficace di contact tracing e di velocizzare l’esecuzione dei tamponi. La prossima ondata pandemica comincerà con una manciata di casi, un focolaio localizzato che se non sarà arginato in tempo divamperà in un secondo incendio dalle conseguenze imprevedibili. Stavolta non possiamo permetterci di farci trovare impreparati.

Non sappiamo se le prossime ondate saranno più lievi, come ci si augura, oppure, al contrario, più gravi, come accadde per la Spagnola del 1918. Si è sostenuto che la selezione naturale tenda a favorire ceppi virali più contagiosi ma meno letali, ma non abbiamo certezze su come evolverà SARS-COV-2. Come spiega in modo brillante David Quammen nelle pagine di Spillover, i virus sono più interessati alla loro riproduzione che alla nostra sopravvivenza, e non è detto che le due cose coincidano: se possono riprodursi e a passare da un corpo all’altro prima che l’ospite muoia, non hanno bisogno di diventare meno letali per continuare a diffondersi; l’unico segreto di un virus di successo, scrive Quammen, «è non tagliare i ponti prima di averli attraversati».

La fine dell’epidemia

La diffusione globale di SARS-COV-2 rende improbabile che il virus possa scomparire e tornare al serbatoio animale da cui è emerso come accadde con la SARS nel 2003. Secondo Mike Ryan, direttore del programma di emergenze sanitarie dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), a causa della sua contagiosità il nuovo coronavirus potrebbe diventare endemico, costringendoci a gestire una successione di ondate pandemiche stagionali, come già avviene per il raffreddore e per l’influenza.

La danza con SARS-COV-2 rischia dunque di impegnarci a lungo. In uno studio pubblicato sulla rivista Science che ha preso in esame i coronavirus del raffreddore, un gruppo di ricerca dell’Harvard T.H. Chan School of Public Health di Boston (Stati Uniti) ha ipotizzato che, in assenza di farmaci e vaccini efficaci, dovremo mantenere le misure di distanziamento sociale almeno fino al 2022 e prolungare la sorveglianza epidemiologica fino al termine del 2024.

A quel punto, tuttavia, è possibile, anzi probabile, che la COVID-19 non sarà più al centro dei nostri pensieri. L’emergenza potrebbe semplicemente finire per assuefazione al rischio. In altre parole, pur continuando a prendere alcune precauzioni per evitare il contagio, smetteremo semplicemente di preoccuparci; come è avvenuto con l’HIV, che non è affatto scomparso, ma con cui abbiamo imparato a convivere anche senza un vaccino e che non consideriamo più un’emergenza.

Per mesi il nuovo coronavirus ha monopolizzato sia le nostre conversazioni sia l’agenda mediatica e politica, ma da qualche giorno qualcosa è cambiato. Le proteste negli Stati Uniti e a Hong Kong hanno aperto una prima breccia nella più grande narrazione globale dai tempi degli attentati alle Twin Towers, forse un primo segnale che la percezione pubblica sta già cambiando. Non accadrà domani e neppure dopodomani, ma alla fine accadrà: molto prima che il virus smetta di circolare nei nostri corpi, svanirà dalle nostre menti.


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Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

(*) A seguito di una segnalazione abbiamo corretto la data il 9 giugno 2020

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).