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Sapiens e Neanderthal: una convivenza più lunga del previsto

Alla luce di recenti studi sui contatti tra le due popolazioni, Telmo Pievani ci aiuta ad approfondire una pagina fondamentale dell’evoluzione umana

Anno 1856 d.c., pieno romanticismo: un periodo insolito se si parla di preistoria. Appena tre anni prima che Darwin pubblicasse “L’origine delle Specie”, in una grotta della valle tedesca di Neander alcuni operai trovarono diversi resti ossei, tra cui un cranio morfologicamente curioso. Questo ritrovamento fu solo il primo passo verso la conoscenza scientifica del nostro cugino più stretto: l’uomo di Neanderthal.

In realtà, fuori dai libri e dai laboratori, l’uomo della grotta i nostri antenati europei lo conobbero fisicamente. Lo guardarono negli occhi e si spinsero anche oltre, nel corso di almeno 5 millenni.

Abbiamo chiesto a Telmo Pievani, professore di filosofia della biologia all’Università di Padova, nonché uno dei massimi esperti italiani di evoluzionismo, quali siano le conseguenze sul piano biologico e genetico ma anche culturale di questo lungo periodo di contatto tra le due specie. È possibile che questo incontro abbia in qualche modo cambiato il corso della vicenda umana?

Mescolanza genetica

Due recenti studi correlati, condotti dal dipartimento di antropologia evoluzionistica del Max Planck Institute di Lipsia e pubblicati su Nature Ecology&Evolution, evidenziano che la convivenza tra Sapiens e Neanderthal in Europa è durata circa 2.000 anni più del previsto. “Abbiamo identificato un dente e quattro frammenti ossei, che in base alle caratteristiche anatomiche appartenevano senza dubbio a un Homo Sapiens. Abbiamo anche recuperato il DNA da questi resti, verificando la loro appartenenza alla specie più moderna”, dichiara il primo autore Jean-Jacques Hublin. Le datazioni sono state eseguite sul materiale proveniente dalla grotta di Bacho Kiro, in nord Bulgaria e “offrono la possibilità di alcuni millenni in più di convivenza in Europa, tra gli autoctoni Neanderthal e gli immigrati Sapiens provenienti da est – chiarisce Telmo Pievani – quindi ora è più probabile che vi sia stato il tempo di una convivenza e non soltanto di una rapida sostituzione tra le due popolazioni”.

Non si è trattato solo di episodi di competizione aggressiva tra le due specie, ma anche di confronto e persino di riproduzione, anche se “non si trattò di una fusione, ma soltanto di sporadiche ibridazioni locali – rivela il nostro intervistato. A ogni modo, le tracce genetiche di queste ibridazioni locali permangono in alcune popolazioni umane moderne. Inoltre, ancorché si tratti di rapporti sessuali interspecifici – “evidentemente fra le specie non si era ancora chiusa la barriera di incrocio. Gli ibridi non nascevano né sterili né malati”, chiosa Pievani.

Ibridazione culturale?

Se da un lato un qualche tipo di mescolanza genetica è data per assodata, possiamo dire lo stesso di un’ibridazione culturale? Gli autori della scoperta, tra i cui primi nomi figura anche Helen Fewlass, sempre del Max Plank Institute, ipotizzano che questa lunga convivenza abbia favorito l’influenza di alcuni comportamenti tra le due specie. Se questa idea venisse confermata, potrebbe rivelarsi un passo importante dal punto di vista antropologico.

Tuttavia “le evidenze di contatti non solo biologici, ma anche culturali, sono decisamente più deboli al momento. Pare che alcuni artefatti e monili si assomiglino tra le due specie, quindi possiamo ipotizzare (ma resta al momento un’ipotesi suggestiva) che i gruppi delle due specie si scambiassero, o si copiassero, o si rubassero gli artefatti”, spiega Pievani. “Se confermata, l’ipotesi implicherebbe un contatto culturale, ma non comunque una mescolanza o fusione delle due culture, altrimenti lo avremmo già riscontrato nella documentazione archeologica delle due specie”. Bisogna evidenziare che, alla base degli artefatti culturali e della capacità stessa di produrre cultura, nel senso antropologico del termine, vi è lo sviluppo socio-cognitivo. Sappiamo che nel Sapiens era molto sviluppato sin dalle origini, mentre “Neanderthal – dice Pievani – era capace di espressioni di intelligenza simbolica (ornamenti del corpo, forse pitture rupestri in Spagna), ma queste sembrano sporadiche e comunque in gran parte diverse da quelle del Sapiens”.

Sapiens invadenti

Che sia stata proprio l’intelligenza simbolica uno dei fattori cruciali per la sopravvivenza della nostra specie è un’ipotesi condivisa da molti. Come effetto contingente, sottolinea Pievani, “probabilmente il declino del Neanderthal fu causato dal nostro arrivo e dalla nostra invadenza territoriale”. Infatti la nostra straordinaria propensione all’emigrazione e la nostra inusuale capacità di adattamento ai più diversi contesti ecologici, dai più favorevoli ai più avversi, è stata probabilmente il motore di questa diffusione sistematica e capillare. A ogni modo, “in alcune regioni come il medioriente vi fu una lunga convivenza con alternanze di occupazioni tra le due specie”.  Secondo Pievani “per un lungo periodo vi fu equilibrio demografico tra le due specie (tra 120 e 70-60mila anni fa), poi successe qualcosa, per esempio la fuoriuscita di altre popolazioni di Homo sapiens fuori dall’Africa dopo i 70-60mila anni fa, più aggressive e meglio organizzate, che ruppe l’equilibrio demografico.”

Tornando poi alle cause prime dell’invadenza del Sapiens, è d’obbligo sottolineare che la sopracitata intelligenza simbolica ha prodotto una serie di dispositivi socio-cognitivi che possono essere presi in considerazione come corresponsabili del nostro successo evolutivo. Si può pensare ad esempio al ruolo che sistemi sociali ad alta cooperazione tra gli individui, come quelli specie-specifici del Sapiens, possono giocare nel rendere compatto, unito e stabile un gruppo, quindi sicuro e ben protetto negli spostamenti e negli attacchi. Un altro importante tassello è la ricchezza e la complessità della vita culturale dei nostri antenati, fondata sempre di più su fenomeni di trasmissione culturale e di innovazione, aspetto probabilmente più rudimentale nel Neanderthal. Fra tutti, è abbastanza difficile stabilire quale elemento abbia svolto un ruolo più decisivo rispetto agli altri. Seppur nell’incertezza, Pievani rivela come presunto “indiziato” principale forse il più affascinante unicum del Sapiens, ancora un enigma ai giorni nostri: il linguaggio articolato.


Leggi anche: Evoluzione umana: più di 300.000 anni fa i primi indizi di una “nuova” cultura

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Wikimedia commons. Immagine sinistra: Daniela Hitzemann. Immagine destra: Stefan Scheer

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Simone Chiusoli
Sono laureato in scienze cognitive e mi affascina tutto ciò che ha l'essere umano come oggetto di studio scientifico. Grazie al MCS della SISSA ho scoperto il potenziale incredibile della comunicazione scientifica e quanto essa si riveli indispensabile oggigiorno. Attualmente mi sto dedicando alla comunicazione dell'evoluzione attraverso una prospettiva interdisciplinare, che faccia dialogare biologia e scienze umane.