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Covid-19 e incendi in Amazzonia: una tempesta perfetta incombe sul Brasile

La pandemia non ha fermato la deforestazione, mettendo a rischio la sopravvivenza dei popoli indigeni, minacciati dal coronavirus e dalla stagione degli incendi ormai alle porte

Con oltre 52 mila morti e più di un milione di contagi accertati, il Brasile è diventato l’epicentro della pandemia di COVID-19. Mentre in Europa il coronavirus fa meno paura, nel mondo la sua diffusione non accenna a rallentare e avanza al ritmo di oltre 130 mila nuovi casi al giorno. Ma è in Brasile che l’emergenza appare davvero fuori controllo: la curva epidemica è ancora in forte ascesa e, sebbene il numero di tamponi sia insufficiente per restituire l’effettiva gravità della situazione, soltanto il 23 giugno sono stati registrati oltre 40 mila nuovi contagi e 1.364 vittime. Come se non bastasse, con l’avvicinarsi della stagione degli incendi il gigante sudamericano potrebbe trovarsi ad affrontare un’altra drammatica minaccia. La pandemia non ha infatti fermato la deforestazione nelle regioni amazzoniche e quest’anno il fumo dei roghi potrebbe aggravare i sintomi respiratori delle persone contagiate.

Una bomba sociale

Sebbene non sia mai stato imposto un vero lockdown, il governo di Jair Bolsonaro appare più preoccupato di rilanciare le attività economiche che di arginare la diffusione del contagio. È una situazione esplosiva perché l’epidemia si accanisce soprattutto sulle fasce più svantaggiate della popolazione, che spesso non hanno possibilità di rispettare le misure di distanziamento. «Le persone più povere, che vivono di agricoltura di sussistenza nelle campagne o di impieghi precari nelle periferie delle città, non ricevono sussidi sufficienti dallo Stato e perciò non possono smettere di lavorare. Spesso sono costrette spostarsi su autobus affollati o a condividere una stanza con altre persone. E quando si ammalano hanno più difficoltà ad accedere alle cure offerte da un sistema sanitario ormai al collasso», racconta Yurij Castelfranchi, professore di sociologia dell’Università Federale di Minas Gerais, in Brasile.

Se l’irresponsabilità del governo Bolsonaro nella gestione della pandemia ha trovato vasta eco nei media occidentali, forse non si è parlato abbastanza dell’orgogliosa reazione del popolo brasiliano, che non è rimasto a guardare. «La società civile ha dimostrato un’incredibile capacità di mobilitarsi in difesa dei più deboli», conferma Castelfranchi. «Scienziati e accademici hanno messo a disposizione mezzi e conoscenze per aiutare i leader di favela a diffondere informazioni sulla COVID-19, le sarte disoccupate cuciono mascherine per chi non può permettersi di comprarle, mentre le aziende hanno messo a disposizione stampanti 3D e software liberi per produrre dispositivi medicali. Sono attivi migliaia di progetti dal basso in ogni angolo del Brasile. Senza questa rete di solidarietà, credo che i morti sarebbero già dieci volte di più».

La stagione degli incendi

Victor Moriyama/Greenpeace

Nel frattempo, neppure la pandemia è riuscita a fermare la deforestazione che, secondo l’Istituto nazionale di ricerca spaziale brasiliano (INPE), nei primi tre mesi di quest’anno è aumentata di oltre il 50% rispetto al primo trimestre dell’anno scorso. Mentre tra agosto 2019 e maggio 2020, l’incremento ha raggiunto il 90% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Già a fine maggio i ricercatori del Monitoring of the Andean Amazon Project (MAAP) hanno rilevato i primi fuochi divampare nell’Amazzonia sudorientale, nello stato del Mato Grosso, con tre mesi d’anticipo sulla stagione degli incendi, che raggiunge il culmine tra agosto e settembre, quando gli agricoltori approfittano del clima più secco per liberare i terreni appiccando il fuoco agli alberi abbattuti. A metà giugno erano già stati contati oltre 900 focolai nella regione amazzonica, quasi il 40% in più rispetto allo stesso periodo del 2019.

La natura di questi incendi è quasi sempre dolosa. A differenza di quanto avviene in Australia o in California, infatti, i roghi nelle foreste pluviali, dove il clima è umido, divampano molto raramente per cause naturali. Gli scienziati del MAAP hanno dimostrato che gli incendi interessano quasi sempre aree deforestate in modo illegale per fare spazio a coltivazioni e allevamenti. Le analisi satellitari mostrano che nel primo trimestre dell’anno si è già registrata una perdita di 1.500 chilometri quadrati di foresta primaria, destinata purtroppo ad alimentare gli incendi dei prossimi mesi.

Luiz Aragão, biologo dell’INPE, guarda con preoccupazione anche alle acque dell’oceano Atlantico che quest’anno sono più calde del solito. Teme che possano deviare a nord l’umidità che sovrasta la foresta pluviale, rendendo più secco il clima nell’area sud occidentale dell’Amazzonia e aumentando così il rischio di incendi. Aragão spiega che negli anni secchi i roghi sono associati a una maggiore incidenza di disturbi respiratori, in particolare nei bambini, a causa dell’alta concentrazione di particolato presente nell’aria. Il timore è che quest’anno il fumo degli incendi possa aggravare i sintomi respiratori della COVID-19, peggiorando il decorso dell’infezione tra le persone contagiate. In un rapporto diffuso a maggio, gli esperti dell’INPE l’hanno messo nero su bianco: l’effetto combinato della pandemia e degli incendi potrebbe avere gravi impatti sanitari sulle popolazioni della regione amazzonica, già afflitte da altre malattie endemiche come la malaria e la dengue.

La tragedia dei popoli indigeni

Un problema che non risparmia i popoli indigeni, le cui terre rischiano di essere soffocate dal fumo dei roghi e che già oggi, a causa della COVID-19, vivono una situazione drammatica. Secondo l’Associazione dei popoli indigeni del Brasile (APIB), al 16 giugno si contavano più di 5.600 casi confermati e 294 vittime, ma il bilancio effettivo potrebbe essere ben più grave perché è difficile eseguire i tamponi e raccogliere le informazioni nei villaggi più isolati.

«I popoli nativi non possono difendersi con il distanziamento sociale», spiega Castelfranchi. «Non si può dire a uno Yanomami di restare a casa perché gli Yanomami non hanno una casa come la intendiamo noi: vivere a stretto contatto gli uni con gli altri, dormire in cerchio senza separazione tra un’amaca e l’altra o condividere il cibo sono una necessità, l’unico modo per sopravvivere nella foresta. Purtroppo anche un numero limitato di contagi può avere effetti devastanti: in molti casi i gruppi indigeni sono infatti composti da appena 500 persone distribuite in tre o quattro villaggi. Senza contare che la morte dei grandi leader anziani è una perdita irreparabile perché loro sono biblioteche e scuole viventi, talvolta gli unici depositari della cultura e della capacità di resistenza di un popolo».

Victor Moriyama/ISA

Il nuovo coronavirus si somma ad altre minacce che da tempo gravano sulla sopravvivenza dei popoli indigeni del Brasile. Senza più una rete di protezione istituzionale, sono infatti sempre più esposti alle minacce e alle violenze dei garimpeiros (i cercatori d’oro illegali) che approfittano della mancanza di controlli dovuta al disimpegno del governo e alla pandemia. Una ricerca condotta dall’Istituto socio-ambientale brasiliano insieme all’Università Federale di Minas Gerais e alla Fondazione Oswaldo Cruz avverte che la COVID-19 potrebbe contagiare il 40% degli Yanomami che vivono in prossimità delle miniere illegali. «Purtroppo, quando i nativi si ammalano, mancano gli elicotteri e la benzina per le barche a motore per portarli all’ospedale più vicino, spesso distante centinaia di chilometri, perché l’esecutivo brasiliano ha tagliato i fondi alle organizzazioni che aiutano i popoli indigeni. I nativi non sono più vulnerabili all’epidemia per ragioni biologiche, ma per motivi politici. Stiamo assistendo a un genocidio che avviene con la complicità dello Stato», denuncia Castelfranchi.

Non lasciamoli soli

È ben noto che il governo Bolsonaro – peraltro mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale – ha incentivato lo sfruttamento dell’Amazzonia con leggi che agevolano la deforestazione e le intrusioni dei garimpeiros nelle terre indigene, e al tempo stesso ostacolano l’operato delle ONG che difendono la foresta e i diritti dei popoli nativi. In un video diffuso a maggio dalla Corte Suprema brasiliana, si può ascoltare il ministro dell’Ambiente brasiliano Ricardo Salles (che nel suo curriculum vanta pure una condanna per crimini ambientali) suggerire di indebolire ulteriormente le politiche a tutela dell’ambiente approfittando del fatto che i media e l’opinione pubblica sono distratti dal coronavirus. Persino agenzie governative come l’Istituto brasiliano dell’ambiente e delle risorse naturali rinnovabili (IBAMA) sono state messe in condizioni di non operare, anche se spesso i loro membri continuano a dare la caccia ai garimpeiros infischiandosene delle direttive ministeriali.

Finora soltanto le pressioni della comunità internazionale sono riuscite a ostacolare l’opera devastatrice del governo Bolsonaro. Lo scorso autunno, la minaccia di boicottare alcuni prodotti d’esportazione come la soia o la carne bovina da parte dei Paesi del Nord America e dell’Europa aveva indotto il governo brasiliano a inviare l’esercito per spegnere gli incendi. Si riuscì a impedire che almeno una parte della foresta abbattuta fosse inghiottita dalle fiamme, ma purtroppo potrebbe accadere quest’anno: gli alberi morti sono ancora lì e molti altri sono stati tagliati in questi mesi. Se non vogliamo che sull’Amazzonia – e sul mondo intero che da questa grande foresta dipende più di quanto immaginiamo – si scateni una tempesta perfetta, non dobbiamo lasciare soli i popoli indigeni che da sempre la abitano e la proteggono.


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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).