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La seconda ondata di Covid-19 colpirà i giovani?

Con la fine del lockdown, l’età media delle persone infettate si è abbassata: ora si teme che i tanti contagi tra gli under 40 possano aiutare il coronavirus a diffondersi

Il profilo delle persone positive al SARS-CoV-2 è cambiato: sempre più spesso ad ammalarsi sono i giovani adulti. Il fenomeno appare ubiquitario ed è stato avvertito anche in Italia, ma allarma soprattutto quei Paesi alle prese con una risorgenza delle infezioni, dagli Stati Uniti, all’Iran, a Israele. Le ragioni sono molteplici e difficili da dipanare, tuttavia i numeri parlano chiaro: in questa fase sono gli under 40 a guidare la diffusione del contagio, ponendo nuovi interrogativi sull’evoluzione della pandemia di Covid-19.

Lunedì scorso il celebre virologo Anthony Fauci ha dichiarato che negli Stati Uniti l’età media di chi contrae la Covid-19 è calata di 15 anni rispetto ai mesi precedenti. Da metà maggio SARS-CoV-2 sembra prendere di mira soprattutto ventenni e trentenni. In Florida, tra marzo e giugno, l’età media dei nuovi casi è scesa da 65 a 35 anni. In Arizona il 60% dei nuovi contagiati ha meno di 45 anni. Texas e California mostrano andamenti simili e nel sud degli Stati Uniti, dove la curva epidemica si è impennata, i giovani adulti contribuiscono in misura maggiore alla diffusione del coronavirus.

Gli Stati Uniti non sono un caso isolato. In Israele, dove l’età media delle persone infette è scesa intorno ai 40 anni, le cronache delle ultime settimane riportano preoccupazioni analoghe. In Iran la seconda ondata dell’epidemia sembra coinvolgere anche bambini e adolescenti. Ma anche in Italia si è osservato un netto calo dell’età anagrafica delle persone contagiate. Secondo le statistiche dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), negli ultimi 30 giorni l’età mediana(*) di chi è risultato positivo al tampone è stata di 46 anni, contro una media di 61 anni dall’inizio dell’epidemia. Sorprende anche il boom di contagi tra gli under 18: nell’ultimo mese hanno superato il 10% del totale, contro un media del 2% da quando è cominciata l’epidemia.

Relazioni sociali a rischio

Nel tentativo di offrire una spiegazione al fenomeno, negli Stati Uniti diversi esperti hanno puntato il dito sulla riapertura dei bar e dei locali frequentati dai giovani. La voglia di socializzare e divertirsi dopo mesi di lockdown forzato è peraltro più che comprensibile. E come osserva in un’intervista al Guardian l’infettivologo Amesh Adalja del Johns Hopkins Centre for Health Security di Baltimora, è difficile rispettare il distanziamento in locali affollati dove si va proprio per socializzare. Senza contare che – aggiunge Adalja con piglio da antropologo – l’alcool induce ad abbassare le inibizioni e a parlare ad alta voce, facilitando così la dispersione dei famigerati droplet in ambienti gremiti di avventori.

Questo ritratto un po’ moralistico è tuttavia una rappresentazione parziale del problema. Negli Stati Uniti la fretta di far ripartire l’economia ha comportato anche il ritorno di tanti giovani adulti in ambienti di lavoro a rischio. Molti lavorano come commessi nei negozi o hanno impieghi stagionali nel turismo, dove spesso si trovano a stretto contatto con un gran numero di persone, magari servendo ai tavoli di quegli stessi locali additati come luoghi privilegiati del contagio. «Gli addetti del settore dei servizi e della vendita al dettaglio sono in gran parte giovani che non possono lavorare in remoto», ha confermato a The Altantic Natalie Dean, biostatistica dell’Università della Florida. Quando il Knight’s Pub, un famoso bar nei pressi dell’Università della Florida Centrale, a Orlando, è stato costretto a chiudere dopo che 28 clienti avevano contratto l’infezione, si è scoperto che anche 13 dipendenti erano positivi al tampone.

È mutata la percezione, non il virus

Questo cambio di scenario è stato senz’altro favorito anche da una diversa percezione del rischio. I giovani si sentono più al sicuro, se non addirittura invulnerabili, perciò tendono a esporsi maggiormente al pericolo rispetto ai più anziani, che invece hanno imparato a temere le conseguenze del contagio e sono più disponibili a sacrificare una parte della loro vita sociale per proteggersi.

Di certo non sono state di aiuto le incaute affermazioni sulla presunta minore pericolosità del coronavirus che, pur non essendo supportate da evidenza scientifica, possono avere contribuito a fare abbassare la guardia a molte persone, a partire dai più giovani. Così come era avvenuto per il calo di contagi seguito al lockdown, più che le mutazioni del virus contano le mutazioni delle nostre abitudini, tanto che gli esperti parlano di «comportamento della seconda ondata». Come riconosce Oliver Morgan, epidemiologo dell’OMS, esperti, governi e istituzioni sanitarie dovrebbero chiedersi se i più giovani abbiano ricevuto messaggi adeguati per sentirsi coinvolti nella battaglia contro la Covid-19.

Più tamponi non spiegano tutto

Il tracollo dell’età media dei nuovi contagiati si spiega almeno in parte anche con l’aumento dei tamponi eseguiti. Nelle prime fasi dell’epidemia, la carenza di kit diagnostici aveva spinto a riservare i test ai pazienti con sintomi evidenti della Covid-19, cioè in prevalenza a persone anziane. L’estensione dei tamponi agli asintomatici e a coloro che presentano solo sintomi lievi ha fatto emergere la maggiore diffusione del contagio tra i giovani, che hanno meno probabilità di ammalarsi gravemente, ma non sono meno esposti al rischio di infettarsi.

Negli Stati Uniti, tuttavia, nonostante le ripetute affermazioni del presidente Donald Trump, non è tutta questione del maggior numero di tamponi perché i contagi sono cresciuti più in fretta dei test eseguiti e anche i ricoveri ospedalieri sono in preoccupante aumento. La verità è che, con il frettoloso abbandono delle restrizioni, il coronavirus è tornato a circolare nella popolazione statunitense, senza risparmiare i più giovani.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha osservato un analogo aumento delle infezioni tra le fasce più giovani anche in molti Paesi a basso reddito, dove la diffusione del coronavirus sta accelerando e dove l’età media della popolazione è più bassa. A livello globale la pandemia continua infatti a dilagare senza avere ancora raggiunto il picco dei contagi, che ormai crescono al ritmo di duecentomila nuovi casi al giorno.

Danni permanenti

La maggiore prevalenza di giovani tra le persone contagiate può contribuire a spiegare perché dal punto di vista clinico SARS-CoV-2 possa apparire meno aggressivo, come si è osservato anche in Italia. Tuttavia, se è vero che i giovani hanno meno probabilità di morire a causa della Covid-19, i rischi dell’infezione sono tutt’altro che trascurabili. Anche perché nei Paesi ricchi i fattori aggravanti come l’obesità o il diabete sono trasversali alle fasce d’età, mentre qualcosa di simile accade nei Paesi poveri per altre malattie concomitanti come l’Aids, la malaria o la diarrea.

Seppure con meno frequenza, purtroppo anche i ventenni possono sviluppare sintomi gravi, avere bisogno di essere ricoverati in terapia intensiva e morire. Inoltre, anche quando l’esito non è fatale, ammalarsi di Covid-19 rischia di lasciare segni permanenti. I medici spiegano che tre settimane di terapia intensiva equivalgono a invecchiare di dieci anni, con una lunga serie di strascichi fisici e psicologici che affliggono la maggior parte delle persone dimesse.

Secondo la Società Italiana di Pneumologia, in molti pazienti ricoverati o intubati si osservano difficoltà respiratorie destinate a protrarsi per mesi, che lasciano le persone guarite incapaci di affrontare qualsiasi sforzo fisico, giovani o meno giovani che siano. Un terzo delle persone dimesse rischia inoltre di avere problemi respiratori cronici a causa delle cicatrici che restano sui polmoni aggrediti dal coronavirus.

Aspettando l’autunno

I giovani infetti, inoltre, anche se asintomatici, possono contagiare genitori e nonni, riattivando la circolazione del virus e facendo risalire il numero delle vittime tra le fasce più vulnerabili della popolazione. In Florida e in Texas si scorgono già i primi segnali, con le terapie intensive che tornano a riempirsi di degenti affetti da Covid-19. «Con l’abbassarsi dell’età delle persone infette ci aspettiamo una minore mortalità… almeno finché chi ha 20-40 anni non contagerà gli altri», aveva scritto in un tweet del 21 giugno Tom Frieden, direttore dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi.

Gli esperti si chiedono cosa accadrà in autunno, quando scuole e università finalmente riapriranno. Finora la sospensione delle lezioni in classe aveva contribuito ad arginare la circolazione del coronavirus tra alunni e studenti, privati anche di gran parte della vita sociale da un lockdown che ha costretto a casa un terzo della popolazione mondiale. Con l’allentamento delle misure di restrizione e l’arrivo dell’estate, SARS-CoV-2 ha trovato nei corpi dei più giovani il modo di continuare a diffondersi. Riuscire a evitare una seconda ondata dalle conseguenze sanitarie ed economiche potenzialmente devastanti senza negare ai più giovani il diritto allo studio e a una sana socialità sarà una sfida di non poco conto.


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Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

(*) Modificato il giorno 2 agosto 2020

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).