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Come riaprire le scuole in (relativa) sicurezza

Molti esperti pensano che i benefici della didattica in classe superino i rischi del contagio, ma gli studi non sono esaustivi. Molto dipende da come evolverà l’epidemia nelle prossime settimane.

Tra la fine di marzo e l’inizio di aprile, più di un miliardo e mezzo di alunni e studenti (oltre il 90% del totale a livello mondiale) sono stati costretti a restare a casa da scuola per la pandemia di COVID-19. Secondo le rilevazioni dell’UNESCO, ancora oggi un miliardo di bambini e adolescenti attendono di tornare tra i banchi. La didattica a distanza ha provato a metterci una pezza, incontrando mille difficoltà che hanno gravato soprattutto sulle fasce più svantaggiate della popolazione e sugli studenti con bisogni educativi speciali. Ma pediatri e pedagogisti temono che la chiusura prolungata delle scuole finisca per causare più danni che benefici. In questa tormentata pausa estiva il mondo della scuola guarda a settembre con apprensione. Oltre alla corsa contro il tempo per riorganizzare la logistica e la didattica, pesano le incertezze sulla possibilità di coniugare il diritto allo studio con la sicurezza di studenti, insegnanti e personale non docente, ancora oggetto di dibattito tra gli scienziati.

Una questione d’età

In tutto il mondo, la serrata delle scuole è stata dettata dal timore che bambini e adolescenti, a stretto contatto nelle aule scolastiche, potessero contagiarsi fra loro e trasmettere l’infezione agli adulti, amplificando la circolazione del coronavirus SARS-CoV-2 tra la popolazione. Le scuole, come è noto, sono un luogo di ampia diffusione dei virus influenzali. Su questa base, per esempio, il rapporto elaborato dalla Fondazione Bruno Kessler e dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) per indirizzare le scelte della Fase 2 aveva scoraggiato la riapertura delle scuole prima della pausa estiva. Tuttavia, come sostenuto da altri esperti su Scienza in Rete, la contagiosità dei più giovani appare inferiore a quella degli adulti, mettendo in discussione questa conclusione. In altre parole, non è detto che SARS-CoV-2 si comporti come un virus influenzale, cosicché i rischi associati alla riapertura delle scuole potrebbero essere stati sopravvalutati.

Le conoscenze disponibili non fugano ogni dubbio, ma le evidenze accumulate finora sembrano indicare che i più giovani – pur non essendo affatto immuni al contagio, come dimostra peraltro il rapido aumento dei casi delle ultime settimane – hanno minori probabilità di ammalarsi, di sviluppare sintomi gravi e di infettare altre persone. Uno studio pubblicato a giugno sulla rivista Nature Medicine e basato su dati epidemiologici raccolti in Cina, Corea del Sud, Giappone, Singapore, Canada e Italia, mostra che per gli under 20 la probabilità di contrarre l’infezione è circa la metà di quella degli adulti. Inoltre, solo il 21% dei giovani fra 10 e 19 anni sviluppa i sintomi della COVID-19, contro il 69% degli over 70. Gli autori dello studio si spingono a ipotizzare che bambini e adolescenti svolgano un ruolo minore nella trasmissione del contagio.

Valutare il rischio di contagio nelle classi scolastiche è però ancora più arduo perché mancano studi rigorosi. Come nota la rivista Science, che ha cercato di dipanare la faccenda in un lungo articolo d’inchiesta, la chiusura delle scuole in molti Paesi ha impedito di fare ricerche sistematiche, mentre dove le scuole sono rimaste aperte le indagini sono state ostacolate dalla difficoltà di ottenere i permessi necessari da genitori, insegnanti e amministratori già gravati dalla gestione dell’epidemia.

Uno studio appena reso pubblico e basato sui risultati del contact tracing effettuato in Corea del Sud tra gennaio e marzo aggiunge però un tassello importante: i bambini di età inferiore a 10 anni avrebbero infatti una capacità di diffondere il coronavirus pari a circa la metà di quella degli adulti. La contagiosità cresce tuttavia con l’età, e nella fascia 10-19 anni è paragonabile a quella delle persone adulte.

Esistono diverse teorie per spiegare il fenomeno: il coronavirus potrebbe replicarsi con meno efficacia nei polmoni dei bambini, limitando la gravità dell’infezione e la capacità di contagio; oppure la minore probabilità di sviluppare i sintomi tipici della COVID-19 che si riscontra nei bambini potrebbe prevenire la diffusione virale mediante tosse e starnuti. Non disponiamo di prove conclusive ma diversi studi sembrano suggerire che i bambini diffondono meno il contagio. Se è così, riaprire gli asili e le scuole materne potrebbe costituire un rischio minore rispetto alle scuole secondarie e alle università.

Alcuni esperti, tuttavia, invitano alla cautela: i bambini più piccoli hanno maggiori difficoltà a rispettare il distanziamento sociale, tendono ad avere più contatti con altre persone, a toccare tutto quello che trovano e non possiedono l’autocontrollo necessario per indossare correttamente le mascherine o per evitare di toccarsi il viso. E poiché molti bambini contagiati sono asintomatici, i genitori potrebbero non accorgersi di nulla e continuare a mandarli all’asilo e a scuola, dove la permanenza in ambienti chiusi e a stretto contatto con i compagni potrebbe finire per compensare la minore contagiosità, mettendo a rischio anche gli insegnanti.

Distanze, mascherine e piccoli gruppi

Secondo l’OCSE, l’Italia ha il corpo docente più anziano d’Europa, con un’età media degli insegnanti di 49 anni. Stando ai dati del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), più di 300 mila docenti di ruolo hanno oltre 54 anni e rientrano dunque tra le fasce più a rischio della popolazione. In attesa delle direttive per la riapertura di settembre, i timori sono perciò più che comprensibili, soprattutto fra gli insegnanti e i genitori con patologie pregresse che aumentano il rischio di sviluppare sintomi gravi in caso di contagio. Per questo sarà vitale dotare la scuola di protocolli di sicurezza efficaci, a tutela di 8 milioni di alunni e studenti, delle loro famiglie, degli insegnanti e del personale scolastico non docente, che include il personale amministrativo, tecnico e ausiliario.

Secondo quanto riporta la rivista Science, l’esperienza maturata nei Paesi che hanno riaperto le scuole mostra che è importante distanziare i banchi, indossare le mascherine almeno quando ci si alza, suddividere alunni e studenti in piccoli gruppi, evitando «classi pollaio» (si raccomanda non più di 10-15 studenti per classe) e limitando il più possibile le interazioni fra studenti di classi diverse. Può essere d’auto anche scaglionare le lezioni in presenza, facendo ricorso alla didattica online per qualche giorno a settimana. Gli esperti suggeriscono inoltre di non limitarsi al controllo della temperatura corporea all’ingresso, ma di sottoporre studenti e insegnanti a tamponi periodici. Non sarà affatto semplice, ma è l’unico modo per riaprire le scuole in relativa sicurezza.

Esistono però nuove evidenze scientifiche che suggeriscono come il nuovo coronavirus possa diffondersi non solo mediante i famigerati droplet, le goccioline di muco e saliva espulse con la tosse e gli starnuti, ma anche con l’aerosol che emettiamo respirando o parlando, rendendo assai più complicata la gestione del rischio negli spazi chiusi dove restiamo per lungo tempo. Negli Stati Uniti si pensa perciò di dotare le aule scolastiche con sistemi di ventilazione e filtri per l’aria, al fine di prevenire il contagio durante l’inverno, quando non si possono tenere le finestre aperte.

Protocolli e realtà

Nei prossimi giorni sarà completato il protocollo del Ministero della Salute che dovrà chiarire quali misure di sicurezza adottare negli edifici scolastici, e come comportarsi se uno studente o un insegnante si dovesse ammalare: mettere in quarantena soltanto i compagni di classe e gli insegnanti degli studenti contagiati, come si fa in Germania, o chiudere l’intera scuola, come avviene in Israele o a Taiwan? In ogni caso, per circoscrivere il focolaio e prendere le decisioni più opportune, sarà cruciale (ancora una volta) disporre di un sistema di contact tracing rapido e affidabile.

I protocolli, tuttavia, dovranno anche fare i conti con la realtà. In diversi Paesi, infatti, le rigide prescrizioni imposte dalle autorità sanitarie sono state spesso allentate per l’impossibilità di metterle in pratica. In Israele, per esempio, dove le scuole hanno riaperto a maggio, non potendo assicurare il distanziamento nelle aule, si è puntato sulle mascherine, obbligatorie per insegnanti e studenti fin dalla scuola primaria. È andato tutto bene finché, verso la fine del mese, un’ondata di caldo a fatto schizzare i termometri a oltre 40°C. A quel punto le autorità hanno revocato l’obbligo di indossare le mascherine. Due settimane dopo (il tempo di incubazione) si sono registrati i primi focolai e a metà giugno oltre 350 scuole erano state costrette a chiudere. Nel Gymnasium Rehavia di Gerusalemme si sono contate 153 infezioni fra gli studenti e 25 fra il personale scolastico.

Chi non ha ancora riaperto le scuole guarda a chi l’ha già fatto nel tentativo di sapere cosa aspettarsi. Dove sono state adottate misure precauzionali come la distanza fisica e la limitazione delle classi, e in un contesto di bassa circolazione del virus nella popolazione – come avvenuto in Danimarca e Norvegia – non si è assistito a una risorgenza del contagio. In Israele, invece, dove la riapertura è stata forse frettolosa, i contagi sono aumentati sia fra i bambini sia fra la popolazione generale, ma non è chiaro che ruolo abbia avuto la scuola. In Svezia, dove non è mai stato imposto un lockdown e dove le scuole sono rimaste aperte senza adottare misure particolari, si stima che circa il 5% degli studenti si sia contagiato, diversi insegnanti si sono ammalati e qualcuno è morto. In Germania, dove gli studenti negativi al tampone non avevano l’obbligo di mascherine, la riapertura delle scuole ha comportato un aumento dei contagi fra gli studenti ma non tra il personale scolastico. Per quanto riguarda infine gli asili, i focolai sono stati piuttosto rari, ma quando ai primi di luglio l’epidemia in Texas è cresciuta vertiginosamente, si sono contati almeno 441 bambini e 894 dipendenti delle scuole materne positivi al tampone. La carenza di studi sistematici rende tuttavia difficile estrapolare da queste esperienze aneddotiche qualsiasi generalizzazione attendibile.

Più benefici che rischi

Nella complessa decisione di come e quando riaprire le scuole pesano tuttavia altri fattori che riguardano la salute e il futuro dei più giovani. Il gigantesco esperimento sociale che ha coinvolto il mondo dell’educazione in questi mesi ha evidenziato i limiti della didattica a distanza, soprattutto per gli alunni della scuola primaria e per le fasce più svantaggiate della popolazione, visto che molte famiglie non hanno accesso a internet e non tutti i genitori che lavorano hanno la possibilità di accudire i figli o di pagare una babysitter.

Oltre alle opportunità di apprendimento, gli esperti temono che la chiusura prolungata delle scuole possa pregiudicare la salute mentale di bambini e adolescenti privati di uno spazio vitale di crescita e socializzazione. Lontani da scuola, inoltre, i bambini più piccoli tendono a fare meno attività fisica, rischiano di avere problemi nutrizionali e sono più esposti forme d’ansia e depressione causate dall’isolamento. Spesso sono gli insegnanti i primi ad accorgersi dei segni di disagio o di violenza domestica. Per questo più di 2.500 medici afferenti al Royal College of Paediatrics and Child Health (RCPCH), l’associazione dei pediatri britannici, hanno firmato una lettera aperta in cui avvertono che «questa interruzione senza precedenti della scuola rischia di compromettere le condizioni di vita di un’intera generazione di giovani».

La Royal Society condivide queste preoccupazioni e in un rapporto che soppesa rischi e benefici associati alla riapertura delle scuole ha esortato il governo britannico a considerare una priorità la ripresa delle attività didattiche in aula. Nelle conclusioni del rapporto gli esperti della più antica e prestigiosa associazione scientifica sottolineano che le scuole sono a minor rischio rispetto ad altri luoghi di aggregazione frequentati dai più giovani, come bar e palestre, che hanno già riaperto.

In effetti, poiché il rischio zero non esiste e in nessuna attività umana si può pretendere l’assoluta sicurezza, dovremmo piuttosto chiederci se, con le opportune precauzioni, le scuole possano essere riaperte in relativa sicurezza. In altre parole, se il rischio possa essere ridotto a un livello accettabile, come avviene per qualsiasi altra attività che comporti l’interazione tra persone.

Aspettando il vaccino

Seguendo il medesimo ragionamento, anche i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) statunitensi si sono schierati per la riapertura delle scuole, suggerendo di adottare misure di mitigazione simili a quelle già implementate nei luoghi di lavoro delle attività essenziali. Gli esperti dei CDC sostengono che, sebbene gli studi non siano conclusivi, l’evidenza disponibile mostra che la COVID-19 rappresenta un rischio relativamente basso per i giovani in età scolare, così come è considerato basso il rischio di trasmissione tra gli studenti o verso i loro famigliari.

Negli Stati Uniti, dove la riapertura delle scuole ha trovato un convinto sostenitore nel presidente Donald Trump, che preme per tornare al più presto alla normalità, la scuola è diventata oggetto di un acceso scontro politico, con i Repubblicani schierati per la riapertura e i Democratici che preferirebbero aspettare un vaccino per non mettere a rischio studenti e insegnanti.

Puntare sulla disponibilità di un vaccino in tempo brevi, tuttavia, appare una scommessa azzardata visto che le sperimentazioni sono ancora in corso e, se anche fossero coronate da successo, bisognerà attendere mesi, forse anni, per completare le complesse fasi di approvazione, produzione e distribuzione. Nel frattempo dichiarazioni analoghe sono arrivate dal premier del Bangladesh, Sheikh Hasina, e dal governo delle Filippine, che nell’impossibilità di implementare le necessarie misure di sicurezza hanno annunciato di non volere riaprire le scuole finché non avremo un vaccino e la COVID-19 non sarà stata sconfitta, anche a costo di lasciare milioni di bambini e adolescenti senza istruzione.

Dentro e fuori le aule scolastiche

Nonostante le tante sfaccettature del problema, gli epidemiologi concordano su un punto: la possibilità di riaprire le scuole in relativa sicurezza è legata a doppio filo con il livello di trasmissione comunitaria dell’epidemia: se in una certa area geografica la circolazione del virus tra la popolazione è elevata, le scuole devono restare chiuse. La scelta di sospendere le lezioni in Italia la scorsa primavera era dunque giustificata. È infatti evidente che le scuole non sono isolate dal resto del tessuto sociale e che la loro riapertura in un contesto di elevata diffusione virale rischia di amplificare il contagio. Si pensi, per fare un solo esempio, alla necessità di garantire la sicurezza sui mezzi pubblici, spesso affollati all’inverosimile nelle fasce orarie di ingresso e uscita dalle scuole.

Se si vuole ridurre al minimo il rischio di contagio nelle aule, dunque, occorre ridurre al minimo quello comunitario. Queste settimane saranno perciò decisive per poter consentire ad alunni e studenti di tornare in classe in settembre. Se a fine agosto il numero di contagi risalirà a livelli preoccupanti, come accade in questi giorni in Spagna, Francia e Germania, il ritorno alla didattica in presenza potrebbe risultare compromesso. Come per le altre attività sociali, molto dipenderà dai nostri comportamenti e dalla capacità delle istituzioni di mantenere sotto controllo i focolai, permettendoci di convivere con i rischi della COVID-19, dentro e fuori le aule scolastiche.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).