CERVELLI ARTIFICIALI

Le Big USA al Congresso, la minaccia cinese e l’Europa al palo

La partita geopolitica si gioca su Internet: le grandi aziende statunitensi del digitale sono state accusate di monopolio dalla Commissione antitrust del congresso. Per difendersi si sono appellate anche al patriottismo, ricordando che la concorrenza è fatta soprattutto da aziende cinesi. L’Europa, che non ha capito le implicazioni strategiche della tecnologia, al momento è fuori dai giochi.

Un paio di settimane fa, quattro tra i più importanti CEO del mondo hanno provato a difendersi dalle accuse di monopolio avanzate dal congresso degli Stati Uniti. Jeff Bezos (Amazon), Tim Cook (Apple), Mark Zuckerberg (Facebook) e Sundar Pichai (Google) non hanno certo bisogno di presentazioni. Negli anni la stampa ha ribattezzato le aziende che dirigono con appellativi altisonanti: Big Four, Big Tech, Tech Giants. Dalle loro iniziali è stato coniato anche l’acronimo Gafa, che permette con una sola parola di indicarli tutti, perché questi giganti, che operano in settori diversi (ma tutti legati a internet), sollevano ormai da anni dibattiti sugli stessi temi.

Le domande a cui hanno dovuto rispondere alla fine del mese scorso gli amministratori delegati dei colossi della tecnologia ruotavano soprattutto intorno a un’accusa: concentrazione di potere. Ormai è innegabile che si sia instaurato un regime di monopolio: Amazon è diventata così importante da rendere la vita molto difficile alle concorrenti, Facebook possiede anche altri servizi social tra i più utilizzati al mondo, come Instagram e Whatsapp. E, ancora: l’Apple store sarebbe disegnato in modo da favorire le app della mela, mentre gli algoritmi di Google tenderebbero a portare l’utente con più facilità su servizi offerti dalla stessa azienda.

Il tema del monopolio è collegato al problema dei dati personali degli utenti, un patrimonio immenso, non sempre gestito in modo trasparente, venduto ad altre aziende ma custodito fin troppo gelosamente quando a fare richiesta sono istituzioni ed enti pubblici. C’è poi la spinosa questione delle fake news da regolamentare (già, ma come?) e quella altrettanto sentita delle tasse, esigue se paragonate ai ricavi.

David Cicilline, il presidente della commissione, ha esordito accusando le piattaforme di essere diventate “i guardiani dell’economia digitale”, e di utilizzare il loro potere per “scegliere i vincitori e i vinti, ricattare le aziende più piccole e arricchirsi mentre soffocano la concorrenza”.

Sempre più Big

Come siamo arrivati a questo punto? Juan Carlos De Martin, professore presso il Politecnico di Torino e co-direttore del centro Nexa (Internet e società), racconta che “Un processo di concentrazione di potere nel panorama economico-industriale è in corso da decenni in diversi settori, dalla comunicazione alla produzione di auto”. Le aziende del digitale non sarebbero quindi un’eccezione, in una stagione di generale tolleranza da parte dell’antitrust.

“La prima a raggiungere un potere enorme rispetto alla concorrenza in campo tecnologico è stata Microsoft, che ha occupato uno spazio cruciale nei sistemi operativi dei personal computer. Poi si sono aggiunte le altre, prendendosi via via nuove nicchie, dal commercio ai motori di ricerca – spiega. Per riuscire nell’intento, hanno messo in atto una politica  aggressiva, acquisendo molte aziende più piccole che potessero in qualche modo costituire un pericolo”. E perché hanno potuto farlo per anni tranquillamente, senza che nessuno sollevasse obiezioni? Secondo l’esperto, i motivi  sono due: uno scenario ideologico e politico complessivamente  più rilassato nei confronti delle regole antitrust e una scelta strategica degli USA: “Stiamo parlando di aziende statunitensi, quindi è legittimo pensare che il governo Usa abbia cercato di rafforzare i propri campioni”. Qualche indizio in questa direzione c’è. Basti pensare che le stesse aziende accusate di monopolio spesso hanno contratti con apparati governativi. O che in passato ci sono stati atti concreti, come lo sconto delle Sales tax  per favorire Amazon quando la società era  agli albori (sconto valido fino ad anni molto recenti).

La lotta dei giganti

Oggi misure del genere non servono più. In occasione dell’udienza, la stampa ha segnalato, unanime, un dato da capogiro: i quattro amministratori delegati collegati in contemporanea in videoconferenza – si è scelta questa modalità a causa dell’emergenza sanitaria – rappresentavano aziende per un valore totale di 5mila miliardi di dollari. Un potere – non solo economico – enorme, che mette a rischio la stessa spinta all’innovazione: “La carica innovativa rappresentata potenzialmente dalle piccole aziende, nel momento in cui vengono incorporate, spesso si diluisce o scompare”, prosegue De Martin.

Incalzati dalle accuse, i quattro CEO hanno provato a replicare per oltre cinque ore. Tra le frasi più gettonate (oltre a “non siamo così grandi”) c’è stato “Siamo positivi per l’America”. La strategia del patriottismo nasce dalla consapevolezza che le uniche piattaforme in grado di competere con i Gafa sono targate Cina. Aziende cinesi come Tencent, Alibaba e Huawei stanno riscuotendo un successo sempre maggiore, app cinesi, come WeChat e TikTok, ogni anno scalano la classifica delle più scaricate al mondo. Più utenti significa più dati e possibilità di fare analisi sempre più mirate.

In questo scenario, il monopolio di un gigante californiano può non piacere, ma quello di aziende che hanno sede in un Paese non certo noto per libertà e democrazia possono fare ancora più paura.

Così la richiesta di poter rimanere sufficientemente grandi si carica di un significato geopolitico. Già da tempo Zuckerberg rilascia dichiarazioni in cui accusa il concorrente TikTok di censurare i video che menzionano argomenti poco graditi al governo cinese e si fa paladino della libertà di espressione. “È una strategia difensiva al momento efficace – commenta De Martin – anche se la discussione negli USA rimane aperta. Vedremo cosa succederà alle elezioni presidenziali il prossimo novembre”.

L’Europa, la grande assente

Dalle nostre parti, intanto, si resta a guardare: “In tutto questo l’Europa è la grande assente”, chiosa De Martin.

Tecnologie come internet e lo smartphone sono nate negli States, che fin dall’inizio hanno voluto investire in questo grande cambiamento. “Al contrario l’elite finanziaria e industriale europea sembra non aver  compreso il digitale e la rivoluzione che ne sarebbe scaturita. Non ha capito che avrebbe toccato tutti i settori produttivi in modo trasversale, anche quelli tradizionali europei, come l’automobile”.

Oggi la situazione è chiara, e qualche Paese – come la Germania – sta provando ad adeguarsi, ma il vecchio continente appare ancora fragile e per nulla compatto: “La debolezza è a monte. L’Europa è fuori dai giochi nella produzione dei microprocessori (appannaggio di due aziende americane), e dal mercato dei  sistemi operativi (altro duopolio USA), tecnologie che conquistano molti meno titoli rispetto all’Intelligenza Artificiale o alla blockchain, ma che rimangono assolutamente cruciali”.

Per uscirne servirebbero soprattutto ingenti investimenti, visto che non mancano risorse di un altro tipo: “Qui abbiamo scienziati di altissimo livello, se ci fosse la volontà politica saremmo ancora in tempo a recuperare terreno, puntando su un digitale meno centralizzato e più equo”.


Leggi anche: Che razza di intelligenza artificiale vogliamo?

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

Condividi su
Viola Bachini
Mi occupo di comunicazione della scienza e della tecnologia. Scrivo su giornali e riviste, collaboro con case editrici di libri scolastici e con istituti di ricerca per la comunicazione dei risultati al grande pubblico. Ho fatto parte del team che ha realizzato il documentario "Demal Te Niew", finanziato da un grant dello European Journalism Centre e pubblicato in italiano sull'Espresso (2016) e in spagnolo su El Pais (2017). Sono autrice del libro "Fake people - Storie di social bot e bugiardi digitali" (Codice - 2020).