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Il cervello del consumatore

Neuromarketing tra ricerca e azienda. Intervista a Patrizia Cherubino

Decidere: che fatica! È vero più che mai durante una pandemia. Le scelte istituzionali devono essere compiute nel più breve tempo possibile e con la massima lucidità. Ogni errore può costare vite umane e può provocare disastri sociali. A ogni modo anche nella quotidianità e in epoca pre Covid prendere delle decisioni comporta e comportava delle conseguenze, dei rischi e una certa dose di ansia. Pensiamo banalmente a quando ci troviamo davanti al bancone della gelateria e dobbiamo scegliere i gusti con cui farcire il cono. Anche in tale circostanza, processi cognitivi ed emotivi lottano fra loro: è vero che l’amarena è meno calorica, ma contemporaneamente non resistiamo al cioccolato, e il bacio?  Vorremmo tre gusti ma il prezzo aumenta ed ecco che il signore dietro di noi ci tocca la spalla e mostra la fila che abbiamo creato. Cosa succede nel nostro cervello quando dobbiamo decidere se, come e in che misura acquistare un prodotto o un servizio? La risposta è arrivata, da pochi anni a questa parte, grazie a una fusione tra l’economia comportamentale, la psicologia e le neuroscienze: il neuromarketing.

Per capirne di più abbiamo fatto qualche domanda a Patrizia Cherubino, collaboratrice dello spin-off Brain Signs dell’università La Sapienza e recentemente coautrice di La mente del consumatore (Luiss University Press, 2020).

Scelte razionali e consapevoli?

In sostanza il neuromarketing “studia cosa accade nel cervello del consumatore quando si trova a dover scegliere un prodotto, navigare su un sito internet, osservare una pubblicità, e in generale a prendere una decisione”, chiarisce l’esperta. Per troppo tempo abbiamo creduto che le persone compissero scelte razionali basandosi su una semplice valutazione statistica di cosa è utile e cosa non lo è. “Partivamo dal presupposto che i consumatori hanno sempre accesso ai loro stati mentali, che possono descrivere accuratamente ciò che vogliono e che conoscono le ragioni per le quali scelgono determinati prodotti e/o servizi. Invece, il neuromarketing è emerso perché – grazie alle scoperte delle neuroscienze e ai nuovi strumenti tecnologici – gli scienziati possono offrire ora nuovi metodi di ricerca”, per misurare tutte quelle reazioni emotive inconsce, automatiche e rapidissime che prima venivano ignorate. Per questa ragione gli esperti sono sempre più consapevoli che le discipline tradizionali, come il marketing e l’economia comportamentale, non sono sufficienti da sole per spiegare tutti i processi mentali che si attivano quando siamo di fronte a una scelta da compiere.

Tecniche d’indagine

Gli strumenti di rilevazione sono vari, alcuni più accessibili di altri, e dipendono dallo scopo dell’analisi. Si utilizza l’elettroencefalogramma “per ottenere informazioni in merito agli indicatori di attenzione, memorizzazione, approccio/evitamento, affaticamento mentale”. Per capire il livello di eccitazione sensoriale, in gergo tecnico arousal, si utilizza la risposta galvanica della pelle (GSR). Esiste poi l’eye tracker, “uno strumento per il tracciamento oculare che ci restituisce informazioni in merito alla direzione dello sguardo del consumatore, per capire quale particolare prodotto o stimolo venga considerato o attragga maggiormente l’attenzione durante la decisione di acquisto, durante l’interazione di una pagina web o quale aspetto della comunicazione viene notato di più durante una pubblicità”. È bene sottolineare che tali procedure “non sono invasive, sono leggere, facili da indossare anche in contesti esterni ai laboratori (punti vendita, musei ecc.)”. Sono invece più costose e possiedono maggiori funzionalità “la fMRI (Risonanza magnetica funzionale), PET, MEG, NIRS. Infine, esistono strumenti che non si basano sulla misurazione dell’attività elettrica del cervello, ma impiegano opportuni software che sono in grado di fornire indicazioni sulla reazione istintiva e inconscia del consumatore. Essi sono il Facial Coding (misura delle espressioni facciali), per la valutazione degli stati emozionali e le tecniche implicite basate sui tempi di risposta (Reaction Time Test), per la misura delle resistenze inconsce e per la misura della forza associativa tra concetti radicati in memoria”.

Neuromarketing in azienda

Viene da chiedersi ora se, nel concreto, le aziende utilizzino le tecniche di neuromarketing per implementare le strategie di comunicazione attraverso l’intercettazione del comportamento del consumatore. “L’interesse per il neuromarketing negli ultimi anni è cresciuto esponenzialmente. Ormai da quasi 20 anni negli USA e, da circa 10 anni in Italia, le grandi aziende si sono rese conto che le tradizionali ricerche di mercato non sono più sufficienti a comprendere a pieno il comportamento del consumatore. Una ricerca ha rilevato che l’80% dei prodotti che vengono lanciati ogni anno, vengono ritirati nell’arco dei primi 6 mesi”, afferma la nostra intervistata. Le aziende sono sempre più sensibili al ruolo della comunicazione e si sono rese conto che per ottimizzarla è necessario “capire meglio quali sono gli elementi che suscitano di più l’attenzione o che generano un maggior coinvolgimento cognitivo ed emotivo”. Questa consapevolezza deve essere la base su cui oggi si costruiscono le strategie di marketing.

Neuromarketing contro il Covid

Dato che discutiamo di comunicazione: il neuromarketing ha qualcosa da offrire anche nell’epoca del Covid? Può favorire in qualche modo la comunicazione pubblica in favore della prevenzione? Probabilmente è un terreno nuovo per questa disciplina e tuttavia, assicura Cherubino, “il neuromarketing, insieme all’economia comportamentale, può aiutare a promuovere l’adozione di comportamenti sociali “positivi”, ed esistono diversi casi di successo della comunicazione di tale tipo in ambito sanitario”. Anche in questo caso i processi decisionali sono fattori cruciali nella lotta al Covid, poiché tutte le regole sanitarie che siamo tenuti a rispettare, ovvero “il distanziamento sociale, il lavaggio continuo delle mani, indossare i dispositivi di protezione individuale, dipendono fortemente dal processo decisionale di ciascun individuo. Allo stesso tempo è importante saper gestire la paura, il panico suscitato dal Covid, promuovendo specifiche comunicazioni che tengano conto di tali processi cognitivi ed emotivi. Proprio in questi mesi sono stati tanti gli articoli pubblicati sui vari media e social, in cui è stato affrontato il tema della comunicazione Covid tramite il contributo delle neuroscienze, ad esempio dal Center for Behavioral Decisions”.

Sembra dunque che questa disciplina abbia notevoli potenzialità, in vari ambiti. Tanto è vero, chiarisce Cherubino, che “le realtà professionali che si avvalgono delle tecniche di neuromarketing sono molteplici: dalle aziende manifatturiere a quelle dei trasporti e delle telecomunicazioni, da quelle alimentari a quelle operanti nel settore no-profit, fino alle società di consulenza”. Come per la ricerca scientifica più lungimirante, “interdisciplinarità” è la parola chiave. Non c’è una sostituzione, assicura l’esperta, bensì un’integrazione tra i vari settori di ricerca. Le discipline tradizionali sono importanti perché forniscono due tipi di indagine essenziali, una di tipo qualitativo, l’altra di tipo quantitativo. Non essendoci mai due senza tre, arriva il neuromarketing. “Mi piace definirlo la terza dimensione della ricerca”, conclude.


Leggi anche: Turismo delle staminali negli USA: il marketing delle terapie (mai approvate) è diretto al consumatore

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Simone Chiusoli
Sono laureato in scienze cognitive e mi affascina tutto ciò che ha l'essere umano come oggetto di studio scientifico. Grazie al MCS della SISSA ho scoperto il potenziale incredibile della comunicazione scientifica e quanto essa si riveli indispensabile oggigiorno. Attualmente mi sto dedicando alla comunicazione dell'evoluzione attraverso una prospettiva interdisciplinare, che faccia dialogare biologia e scienze umane.