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In cerca delle api: viaggio dall’alveare all’ecosistema

Per comprendere la moria che da almeno 15 anni spopola gli alveari è necessario studiare questi insetti sociali per ciò che sono: non una semplice colonia di individui ma un unico superorganismo.

Per certi versi, lo studio di un alveare è molto simile alle neuroscienze: un numero di entità semplici interagiscono tra loro dando origine a comportamenti inspiegabilmente complessi. Per capire un’ape non basta conoscere l’anatomia e la fisiologia di tutti gli apparati di cui è composta. Né, per capire un alveare, è sufficiente conoscere a fondo la vita della singola ape, poiché proprio dalle interazioni fra le api scaturiscono le proprietà più interessanti della colonia. Da questo assunto, che strizza l’occhio alla teoria della complessità, inizia il percorso dentro e fuori all’alveare tracciato da Francesco Nazzi nel suo saggio “In cerca delle api” (Hoepli Editore, 2020, 144 pagine, 12,90€) alla ricerca di una soluzione alla sindrome di spopolamento degli alveari (SSA) che da almeno 15 anni strazia gli alveari dell’emisfero boreale. Attualmente, si stima che in Europa circa un quinto delle colonie d’api venga perduto durante la stagione invernale, per essere rimpiazzato, a prezzo di crescenti sforzi, durante la primavera successiva.

Per quanto ne sappiamo finora, le cause della SSA sono numerose: semplificazione del paesaggio agrario, abuso di agrofarmaci, invasione di parassiti come il temutissimo acaro Varroa destructor e la diffusione di virus patogeni. È proprio la complessità di cause a spingere Nazzi, professore di zoologia, apidologia e apicoltura all’Università di Udine, a partire dai caratteri più semplici per scalare, di capitolo in capitolo, i gradini dell’affascinante organizzazione sociale delle api. Senza per questo rinunciare, tra un ripasso di anatomia e un concetto di ecologia, ad aneddoti dei propri vagabondaggi tra gli apicoltori della savana del Kenya o tra quelli che vivono nei boschi della Corea. Gli stupefacenti adattamenti anatomici, come la serie di uncini che connettono le due coppie di ali creando un’unica superficie battente, fluiscono nella descrizione dei comportamenti che hanno permesso alle api di sviluppare un complesso sistema sociale.

Primo tra tutti, il linguaggio delle danze, esempio pressoché unico – all’infuori dell’uomo – di una forma di comunicazione simbolica nel mondo animale. Qualora trovi qualcosa di interessante per la colonia, un’esploratrice riferisce alle compagne l’ubicazione attraverso la ripetizione di determinati movimenti che variano a seconda di posizione, distanza e abbondanza della fonte di alimento. Questo linguaggio è utilizzato anche nella formazione del consenso nelle decisioni che riguardano l’intera colonia come, per esempio, la scelta del nuovo sito di nidificazione. Nonostante la semplicità del cervello della singola ape, lo sciame è in grado di ponderare molteplici elementi e dunque optare per la scelta migliore attraverso la condivisione di migliaia di valutazioni indipendenti.

Un’altra dimostrazione delle proprietà emergenti della colonia è rappresentato dal mantenimento di una temperatura costante nell’alveare. Nonostante le api non siano capaci di regolare la propria temperatura corporea, all’interno del nido essa si attesta stabilmente attorno ai 35° C, cioè la temperatura ideale per la covata. Per il riscaldamento le api utilizzano un sistema simile a quello che involontariamente mettiamo in atto noi stessi quando rabbrividiamo: la contrazione da fermo dei potenti muscoli alari scalda il torace delle api fino a quaranta gradi, sufficienti a scaldare le cellette circostanti. Viceversa, se la temperatura è elevata ma non eccessiva, alle api basta movimentare l’aria facendo vibrare le ali a mo’ di ventilatore. Quando invece fa troppo caldo, le api spargono all’interno delle cellette vuote minuscole gocce d’acqua che, evaporando, sottraggono calore all’ambiente.

Affinché queste e altre operazioni complesse siano possibili, è però necessario un elevato grado di coordinamento scandito da ormoni e altre molecole chimiche. La successione di mansioni che le operaie svolgono nel corso della propria breve vita ne è l’esempio: se da principio l’ape si dedica a ripulire le cellette vuote, con la progressiva maturazione delle ghiandole ipofaringee, utilizzate per la produzione della pappa reale, la sua attenzione si rivolge alle larve, che accudisce e rifornisce di cibo. Successivamente, allorché entrano in funzione le ghiandole della cera, l’ape operaia si dedica alla costruzione del nido, per poi intraprendere l’attività di guardiana. Quando sono ormai trascorse due, tre settimane, l’ape inizia a svolgere l’attività di bottinatrice che la porta lontano dall’alveare in cerca di nettare, polline ma anche acqua e propoli. Infine, trascorse quattro, cinque settimane, l’ape operaia termina la sua vita.

Come ammette lo stesso autore, è tremendamente difficile dare un’idea della straordinaria complessità di un alveare e dell’ordinata molteplicità che lo caratterizza. Altrettanto complicata è l’analisi del declino delle api, le cui conseguenze interessano direttamente l’intero pianeta, uomo compreso. Infatti, sebbene altri animali contribuiscano alla causa, le api concorrono all’impollinazione di tre quarti delle colture agrarie di interesse economico. Tuttavia, per quanto possa essere disperata la situazione, la battaglia non è ancora persa. Non a caso, il viaggio de “In cerca delle api” si conclude con un decalogo di buone pratiche: ciascuno di noi, attraverso semplici accorgimenti, può contribuire alla loro salvaguardia.


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Davide Michielin
Indisposto e indisponente fin dal concepimento, Davide nasce come naturalista a Padova ma per opportunismo diventa biologo a Trieste. Irrimediabilmente laureato, per un paio d’anni gioca a fare la Scienza tra Italia e Austria, studiando gli effetti dell’inquinamento sulla vita e sull’ambiente. Tra i suoi interessi principali vi sono le catastrofi ambientali, i fiumi e gli insetti, affrontati con animo diverso a seconda del piede con cui scende dal letto.