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Il coronavirus dei visoni che potrebbe mettere a rischio il vaccino per la Covid-19

Il nord della Danimarca è in lockdown per impedire la diffusione di un ceppo mutato negli allevamenti di visoni che potrebbe indebolire la nostra risposta immunitaria all'infezione

Scuole chiuse, bar e ristoranti con saracinesche abbassate, trasporti pubblici fermi, riunioni con più di nove persone vietate e niente sport al coperto in sette comuni dello Jutland settentrionale, una regione nel nord della Danimarca dove gli abitanti sono stati invitati anche a non spostarsi e a sottoporsi al tampone. Niente di straordinario nei giorni in cui l’Europa è tornata a essere l’epicentro della pandemia di COVID-19, se non fosse che questo anomalo lockdown è stato causato da una variante del coronavirus SARS-CoV-2 emersa negli allevamenti di visoni.

Si tratta di un ceppo mutato che ha contagiato 12 persone facendo temere alle autorità sanitarie danesi che possa ulteriormente diffondersi nella popolazione. Un rischio che il governo di Copenhagen vuole evitare a ogni costo perché questa nuova variante del coronavirus potrebbe rendere meno efficaci i vaccini contro la COVID-19. «È una seria minaccia per il mondo intero», ha detto senza mezzi termini la premier danese Mette Frederiksen.

Un rischio per il vaccino

Secondo uno studio appena pubblicato su Science, le analisi genetiche dimostrano che i visoni sono stati infettati dagli esseri umani. I primi casi si sono registrati in aprile negli allevamenti dei Paesi Bassi. Nei visoni il coronavirus è quindi mutato e alcune varianti virali hanno compiuto il percorso inverso, contagiando in modo sporadico gli esseri umani, per lo più allevatori e altre persone venute a stretto contatto con gli animali infetti.

La situazione più grave si è registrata in Danimarca, dove dal mese di giugno a oggi oltre 200 persone sono state infettate da varianti mutate di SARS-CoV-2 che circolano tra i visoni. Nella regione dello Jutland settentrionale, dove si concentra la maggior parte degli allevamenti danesi, oggi quasi la metà delle persone positive è stata infettata da una variante del coronavirus che si è originata nei visoni; per confronto, nel resto della Danimarca la proporzione è inferiore all’1%.

Ma a preoccupare le autorità sanitarie danesi è un uno specifico ceppo virale indicato come cluster 5 che nel mese di settembre ha contagiato 12 persone di età compresa fra 7 e 79 anni; otto hanno un legame con gli allevamenti di visoni e quattro fanno parte della comunità locale. Un rapporto preliminare dello Statens Serum Institut (SSI), l’istituto di ricerca danese con sede a Copenaghen che si occupa di malattie infettive, afferma che i test di laboratorio evidenziano una serie di mutazioni mai documentate in precedenza e che il ceppo mutato mostra una ridotta suscettibilità agli anticorpi umani. Gli scienziati danesi avvertono che consentire al virus di diffondersi potrebbe limitare l’efficacia dei vaccini attualmente in fase di sviluppo.

Per scongiurare queste terribile eventualità, lo scorso 4 novembre il governo danese ha stabilito che l’intera popolazione di visoni – composta da 15-17 milioni di esemplari – dovrà essere abbattuta. La Danimarca è il più grande esportatore mondiale di pellicce di visone: oggi nel Paese si contano tre visoni per ogni abitante. La premier danese Frederiksen ha detto che è una scelta dolorosa ma necessaria.

Identikit del ceppo mutato

Da giorni la comunità scientifica si interroga se le mutazioni osservate nel coronavirus dei visoni rappresentino un’effettiva minaccia per la salute umana, se davvero possano vanificare gli sforzi per produrre un vaccino contro la COVID-19 e, in definitiva, se la drastica reazione del governo danese sia giustificata. In fondo i virus a RNA mutano di continuo e SARS-CoV-2 non fa eccezione, ma la gran parte delle mutazioni non ha influenza sulle caratteristiche del patogeno e secondo l’OMS non ci sono evidenze che le mutazioni osservate nei visoni abbiano reso il coronavirus più contagioso o più letale gli esseri umani.

Tuttavia, quando un virus compie un salto di specie, suona sempre un campanello di allarme perché il rischio di mutazioni importanti aumenta. La variante cluster 5, inoltre, presenta mutazioni nella regione genomica che codifica per la proteina spike, e i virologi tendono sempre a innervosirsi quando viene toccata questa proteina, che ha un ruolo cruciale nell’infezione virale e nella risposta delle nostre difese immunitarie. La proteina spike consente infatti al coronavirus di legarsi alle cellule e infettarle. È perciò il bersaglio preferito dai nostri anticorpi e di molti vaccini in sperimentazione. Se la proteina spike muta in modo significativo, SARS-CoV-2 potrebbe aggirare le nostre difese immunitarie, aumentare i rischi di reinfezione e rendere meno efficaci i vaccini che stimolano la produzione di anticorpi.

Negli studi preliminari condotti in Danimarca, quando le cellule infettate con il ceppo virale mutato sono state esposte agli anticorpi, la risposta immunitaria è stata più debole del previsto. Questo non implica necessariamente che il coronavirus dei visoni sia in grado di eludere il vaccino contro la COVID-19, ma è una possibilità inquietante che impone indagini più approfondite.

Valutare il rischio

Le autorità danesi ritengono che l’ampia circolazione virale negli allevamenti di visoni, la suscettibilità di questi animali al coronavirus e la facilità di trasmissione tra esseri umani e visoni costituiscano un serio rischio per la salute pubblica. È difficile valutare quanto siano fondati questi timori perché le sequenze genetiche raccolte dai ricercatori danesi sono state inserite nel database pubblico GISAID solo pochi giorni fa e la comunità scientifica non ha ancora avuto il tempo di esaminarle a fondo.

Diversi esperti hanno espresso scetticismo rispetto al rischio che le mutazioni osservate nel coronavirus dei visoni possano pregiudicare l’efficacia di un vaccino. L’OMS ha giudicato rilevanti i risultati del rapporto preliminare ricevuto dalle autorità sanitarie danesi, riconoscendo che la variante cluster 5 potrebbe presentare «una sensibilità moderatamente ridotta agli anticorpi neutralizzanti», ma ritiene necessari ulteriori approfondimenti. «Dobbiamo aspettare e vedere quali sono le implicazioni di queste mutazioni, senza saltare alle conclusioni affermando che pregiudichino l’efficacia di un vaccino», ha ammonito Soumya Swaminathan dell’OMS.

In settimana è attesa anche la valutazione del rischio effettuata dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC). In ogni caso, l’OMS ritiene che questa vicenda evidenzi il pericolo posto dagli allevamenti di visoni nella trasmissione del coronavirus SARS-CoV-2, raccomandando ai governi di rafforzare la sorveglianza e le misure di sicurezza per mitigare il rischio di zoonosi, per tutelare la sicurezza degli allevatori e di chiunque entri in contatto con animali potenzialmente infetti.

Un nuovo serbatoio virale

Trovando un nuovo ospite nei visoni, SARS-CoV-2 sembra avere collezionato un altro successo evolutivo. Solo un anno fa era ancora confinato nei pipistrelli di qualche sperduta regione rurale della Cina. Forse di tanto in tanto contagiava qualche altro mammifero, ma senza grande successo, almeno finché non è riuscito a trasmettersi a un ospite intermedio ancora sconosciuto – forse i pangolini, oggetto di un intenso traffico di fauna selvatica – che gli ha permesso di fare il grande salto di specie verso gli umani. Da quel momento, annidato nei nostri corpi sempre in movimento, ha potuto diffondersi in ogni angolo del pianeta, dando vita a quel che noi chiamiamo una pandemia. Ora ha trovato nei visoni d’allevamento un altro generoso bacino in cui circolare, mutare ancora e tornare a noi, compiendo l’ennesimo spillover, che stavolta gli scienziati potranno studiare in tempo reale, come raramente accade.

In genere siamo più interessati alle zoonosi, cioè alle malattie che gli animali trasmettono a noi, ma anche gli esseri umani sono un formidabile veicolo di contagio per altri mammiferi; in questo caso si parla di antropozoonosi (o zoonosi inversa) ed è più frequente di quanto si creda. Oltre ai visoni d’allevamento, in questi mesi abbiamo trasmesso il coronavirus a cani e gatti domestici, nonché ai leoni e alle tigri di alcuni zoo.

Diversamente da cani e gatti, che al più sviluppano qualche lieve sintomo, i visoni sono molto suscettibili al coronavirus, possono ammalarsi gravemente e spesso muoiono. Inoltre, a differenza di quanto avviene con gli altri animali che abbiamo contagiato, i visoni possono restituirci il favore e infettare noi. Come riconosce anche l’OMS, con l’allevamento intensivo di questi animali da pelliccia si è creato un nuovo serbatoio animale e una pericolosa fonte di contagio che può contribuire ad amplificare la diffusione di SARS-CoV-2 nella popolazione umana.

Il ruolo degli allevamenti

Gli allevamenti intensivi di visoni, dove migliaia di esemplari vivono ammassati in spazi ristretti e spesso in condizioni di forte stress e sofferenza che li rende più vulnerabili alle infezioni, sono ritenuti un ambiente ideale per il proliferare delle malattie contagiose. Dall’inizio della pandemia sono già stati rilevati numerosi focolai negli allevamenti europei. In luglio la Spagna ha abbattuto 90 mila visoni dopo che alcuni allevatori in una fattoria nella comunità autonoma di Aragona erano stati infettati. In giugno, altri 60 mila esemplari sono stati sacrificati nei Paesi Bassi. Ma sono stati segnalati focolai anche negli Stati Uniti, in Svezia e in Italia.

Mentre la comunità scientifica si interroga sui rischi, in Danimarca il governo è stato costretto a fare marcia indietro sulla decisione di abbattere l’intera popolazione di visoni perché la normativa danese consente solo interventi mirati negli allevamenti dove si sono registrati contagi, costringendo la premier Frederiksen a scusarsi con il parlamento. La situazione resta però molto grave perché in Danimarca più di un allevamento su cinque ha avuto infezioni e finora sono stati abbattuti quasi tre milioni di esemplari.

Da tempo le associazioni animaliste premono affinché l’allevamento di visoni e di altri animali da pelliccia sia vietato, seguendo l’esempio di molti Stati europei, dal Regno Unito alla Germania. Nei Paesi Bassi la scadenza per chiudere questi allevamenti è stata anticipata dal 2024 alla prossima primavera, mentre la Francia ha annunciato che porrà fine all’allevamento di visoni entro il 2025.

Gli allevamenti italiani

In Italia sono ancora presenti otto allevamenti di visoni: tre in Lombardia, due in Veneto, altri due in Emilia Romagna e uno in Abruzzo. Ospitano oltre 60 mila esemplari che nascono in primavera e sono uccisi durante l’inverno successivo per ricavarne la pelliccia.

Nei giorni scorsi la LAV ha denunciato con un video girato nell’allevamento di Cremona – dove in agosto si sono registrati i primi casi di contagio tra i visoni allevati in Italia – che la vigilanza sanitaria non sempre viene rispettata: gli operatori non indossano mascherine, né guanti né altri dispositivi di protezione, violando così le norme di biosicurezza. Secondo la LAV, inoltre, finora non sono state condotte indagini epidemiologiche negli allevamenti italiani, né è mai stato sequenziato il genoma virale delle persone positive al tampone che vivono in prossimità di questi allevamenti.

I filmati della LAV documentano anche le condizioni di privazione di migliaia di visoni, allevati in minuscole gabbie di rete metallica, in condizioni igieniche precarie e senza alcuna possibilità di arrampicarsi, scavare o nuotare come farebbero in natura. I visoni sono animali solitari ma negli allevamenti sono costretti a vivere ammassati fra loro, in una convivenza forzata che, oltre ad aumentare il rischio di infezioni,  può causare stress, aggressioni e persino automutilazioni.

Mentre in natura i visoni possono vivere diversi anni, quelli allevati sono uccisi prematuramente con un gas (in genere CO2) che dovrebbe addormentarli prima di avvelenarli. Le organizzazioni per il benessere degli animali come Humane Society International considerano questo metodo crudele perché i visoni sono animali semi-acquatici in grado di trattenere a lungo il respiro: questo prolunga l’agonia e può persino capitare che qualche esemplare sopravviva al primo tentativo e debba essere gassato una seconda volta.

In un’epoca in cui le zoonosi stanno diventando sempre più frequenti, è necessario interrogarsi sui rischi posti dagli allevamenti intensivi che – dai polli ai maiali, dagli zibetti ai visoni – oltre che fonte di indicibili sofferenze per gli animali, possono diventare micidiali incubatori di malattie infettive dal potenziale pandemico.


Leggi anche: Come si trasmette davvero il coronavirus della Covid-19

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Jo-Anne McArthur on Unsplash

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).