CERVELLI ARTIFICIALI

Siamo pronti ad accogliere le macchine in mezzo a noi?

La risposta breve è no. Meno di un italiano su due possiede competenze digitali di base, abbiamo una certa resistenza al cambiamento e non stiamo preparando un contesto che favorisca l'ingresso dei robot nella società.

Ce lo sentiamo ripetere da anni: l’Italia, in ambito digitale, è fanalino di coda in Europa. Ci sono problemi strutturali che si sommano a quelli culturali. Negli ultimi anni si sono compiuti sforzi per colmare il digital divide, ma i report internazionali mostrano che i problemi risiedono principalmente nelle competenze.

Quest’anno il rapporto Desi (Digital Economy and Society Index), un indice che esiste dal 2014 e permette alla Commissione europea di monitorare il progresso digitale degli Stati membri, ha fotografato una situazione drammatica: nel nostro Paese solo il 42% della popolazione tra i 16 e i 74 anni ha competenze digitali di base. Meno di un adulto su due possiede quelle conoscenze che ormai sono la base per ottenere velocemente un certificato, interloquire con la Pubblica amministrazione o pagare una bolletta senza mettersi in fila in Posta. Per quanto riguarda la dimensione del capitale umano, il Belpaese è l’ultima tra i 28 Paesi Ue.

“Sul digitale l’Italia è molto indietro per motivi storici – afferma Alessandro Vitale, membro della task force sull’intelligenza artificiale dell’Agenzia per l’Italia Digitale. La percentuale del Pil spesa per l’informatica è tra le più basse d’Europa e le aziende spesso non investono in innovazione, ma per il mantenimento di sistemi vecchi”. Secondo l’esperto, l’università è buona, ma le migliori opportunità si trovano all’estero, “sia dal punto di vista economico sia per quanto riguarda il lavoro vero e proprio”.

La parola ai robot

Per mettere l’intelligenza artificiale al servizio dell’alta percentuale di italiani privi di alfabetizzazione digitale, Vitale, che è anche fondatore e Ceo di Conversate, un’azienda basata sugli algoritmi, sta studiando dei chatbot vocali. “Abbiamo pensato che i due strumenti che tutti sanno usare sono il telefono e Whatsapp“ ripercorre l’ingegnere. “Quest’ultima App, però, è proprietaria di Facebook, che non permette l’accesso a terze parti. Ci siamo così concentrati sul telefono. L’idea è che ci sia una voce che aiuta a risolvere i problemi senza dover occupare un essere umano. Questo potrebbe essere utile per il servizio clienti, in cui spesso le domande sono simili”.

Qualcosa di molto simile agli assistenti vocali che da qualche anno popolano le nostre case, quindi, ma rivolti a un segmento di popolazione che non ha accesso a questi strumenti. “Di solito chi acquista Alexa o Google Home ha competenze digitali medie, mentre i nostri chatbot aiuterebbero quella frangia di persone che si trova a disagio con la tecnologia”.

La sfida non è banale: “Oltre all’apprendimento delle macchine, occorre prestare una certa attenzione alla qualità dei microfoni e al tempo di latenza: è impensabile far aspettare anche solo alcuni secondi l’interlocutore”, chiarisce Vitale.

L’intelligenza aumentata

“Quando si parla di intelligenza artificiale, si deve distinguere tra l’automazione e l’intelligenza aumentata“ premette l’esperto. “Nel primo caso possiamo pensare alla classica situazione da film di fantascienza, in cui i robot sostituiscono l’uomo. Uno scenario più realistico è invece quello dell’intelligenza aumentata, nel quale le macchine sono di supporto all’uomo, occupandosi magari delle mansioni più ripetitive o pericolose”. Quest’ultima è però una prospettiva più complessa da attuare: “Abbiamo un problema culturale, prima che tecnologico – asserisce Vitale – scontiamo la resistenza al cambiamento dell’uomo, che collabora mal volentieri con una macchina”.

Non è possibile ragionare di intelligenza artificiale senza considerare la società in cui questa andrà a inserirsi: introdurre innovazioni tecnologiche senza costruire ammortizzatori al cambiamento, finirà solo per aumentare le disparità sociali. “Ci sono molti studi che mostrano come non scomparirà il lavoro, ma solo alcune mansioni”, afferma l’ingegnere. Certo, qualcuno è più a rischio di altri: chi oggi lavora in un call center, guida un camion o fa il fattorino in un servizio di delivery potrebbe essere considerato superfluo in un futuro ravvicinato. Per questo servirebbe un sistema in grado di ricollocare queste persone in un mercato che cambia velocemente. “In passato trasformazioni epocali avvenivano nel periodo di generazioni. Oggi, questo succede nel giro di pochi anni. Piattaforme di apprendimento digitale come Coursera si rivolgono a chi è già altamente scolarizzato. La sfida è trovare forme scalabili per formare le persone senza lasciare indietro nessuno”.

Se in futuro il lavoro non mancherà, infatti, sarà sempre più difficile far incontrare domanda e offerta. Le aziende potrebbero cercare profili non disponibili, proprio perché ciò che un universitario impara oggi tra cinque anni sarà superato.

Cosa succede nel mondo

Nel marzo 2018 la task force cui appartiene Vitale ha presentato al Governo Gentiloni il primo Libro Bianco sull’Intelligenza Artificiale, con una serie di proposte riguardanti la Pubblica amministrazione. Nel dicembre del 2018 il primo Governo Conte ha costituito una seconda task force all’interno del Mise per una strategia completa a livello italiano, che andasse oltre le Pa. Esiste anche un gruppo interparlamentare che sta lavorando sull’AI. Al momento, però, la politica in Italia è molto timida dal punto di vista operativo.

“A livello aziendale quest’anno, a causa della pandemia in corso, qualcosa si è mosso – ammette Vitale – Non ci sono stati cambiamenti significativi, ma si sono poste le basi per compierli in futuro. Banche e aziende di servizi hanno cominciato a dematerializzare molti processi, per esempio. Nel 2000 successe la stessa cosa: ci furono molti investimenti in informatica per paura del millenium bug. Questo non ci fu, ma la spinta tecnologica fu notevole. Credo che con il Covid stiamo assistendo a qualcosa di analogo. Dovremo saperlo sfruttare”.

Vitale nel 2018 è stato tra i rappresentanti italiani al G7 sull’intelligenza artificiale che si è tenuto a Montreal: “C’è una forte competizione a livello mondiale: la sensazione è che chi riuscirà a vincere nell’AI avrà una posizione dominante – riferisce l’esperto – Molti Paesi si stanno concentrando sul promuovere politiche attrattive per i lavoratori. Spesso si pensa che le politiche migratorie riguardino soprattutto chi entra clandestinamente, in realtà hanno un forte impatto anche sui talenti. Lo abbiamo visto negli Stati Uniti, come conseguenza della stretta del governo americano e lo vediamo nel Regno Unito post-Brexit”. L’Europa sembra più attenta dal punto di vista normativo, con un’attenzione particolare riservata ai temi etici e della privacy, mentre gli Stati Uniti sono più avanti dal punto di vista tecnologico. “L’elefante nella stanza era la Cina, che essendo un G7 non ha partecipato ma che, con l’America, è uno dei grandi player mondiali”.

La sfida nei prossimi anni si giocherà anche sulla governance: “Oggi assistiamo a un enorme vuoto: raramente i Governi prendono posizione; preferiscono lasciare che il mercato si autoregoli, come è successo nel caso del riconoscimento facciale negli Stati Uniti. Sulla scia delle proteste per il Black Lives Matter, alcune grandi aziende come Ibm, Amazon e Microsoft hanno smesso di fornire i loro algoritmi ai dipartimenti di polizia. Il governo, tuttavia, non si è espresso. A livello mondiale hanno legiferato solo Belgio, Lussemburgo e Marocco. L’Europa è storicamente avanti su questi temi e abbiamo quello che serve per vincere questa sfida, soprattuto se metteremmo a fattor comune le competenze e l’affronteremo a livello sovranazionale”.


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Immagine: Pixabay

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Michela Perrone
Appassionata di montagna e di tecnologia, scrivo soprattutto di medicina e salute. Curiosa dalla nascita, giornalista dal 2010, amo raccontare la realtà che mi circonda con articoli, video e foto. Freelance dentro e fuori, ho una laurea in Comunicazione e un master in Comunicazione della Scienza.