ANIMALI

Umani e delfini: cosa succede quando si immergono

Per noi esiste il riflesso d’immersione, per loro si è scoperta un’incredibile capacità di modificare la frequenza cardiaca a seconda di quanto tempo intendono restare sott’acqua.

Quando ci immergiamo, il nostro organismo mette in atto tutta una serie di adattamenti, per ottimizzare le risorse a disposizione e per resistere in apnea per più tempo di quanto non si riesca a fare fuori dall’acqua. È chiamato “riflesso d’immersione”, è una risposta che si verifica in quasi tutti i mammiferi, e più in generale in numerosi vertebrati, e se ne ha conoscenza dall’Ottocento. Secondo molti il pioniere sarebbe stato Paul Bert, nel 1870, nel corso di alcuni esperimenti sugli adattamenti fisiologici all’asfissia nelle anatre e altri animali. Eppure le origini di questa scoperta sembrerebbero risalire a un secolo prima: Edmund Goodwyn, un medico inglese che studiò all’Università di Edimburgo, aveva già descritto questo fenomeno nella sua tesi di dottorato, pubblicata nel 1786 in latino e nel 1788 in inglese.

Il riflesso di immersione nell’essere umano

Nel momento in cui il nostro viso tocca l’acqua fredda, per stimolazione termica di alcuni recettori che si trovano su fronte, naso e intorno agli occhi, per prima cosa il battito del nostro cuore rallenta. Seguono vasocostrizione periferica selettiva, aumento della pressione arteriosa, aumento della gettata cardiaca e splenocontrazione (spremitura della milza). Tutti questi adattamenti sono temporanei e reversibili non appena torniamo sulla terraferma, e servono per rifornire il più possibile di ossigeno i nostri organi più importanti: cuore, cervello, fegato e reni. Il fatto che la nostra pressione arteriosa aumenti dimostra come il riflesso d’immersione nell’uomo sia un meccanismo di adattamento imperfetto: nei mammiferi marini questo non si verifica, soprattutto perché la vasocostrizione periferica è dalle 4 alle 10 volte superiore che nel subacqueo. In più, non bisogna dimenticare che la struttura del corpo umano non è concepita per ambienti ad alta pressione.

Se nel nostro caso e in quello di molti altri animali la bradicardia – ovvero il rallentamento della frequenza cardiaca – è un riflesso condizionato, secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Physiology i delfini invece sono in grado di rallentare in maniera attiva il loro battito cardiaco prima di immergersi, e possono anche regolarlo a seconda di quanto pianifichino di rimanere sott’acqua. Questa scoperta getta nuova luce su come i mammiferi marini risparmino ossigeno e si adattino alla pressione scendendo in profondità.

Lo studio

Gli autori hanno lavorato con tre maschi di Tursiops truncatus addestrati a trattenere il respiro per periodi di tempo diversi, su richiesta. Andreas Fahlman, della Fundación Oceanogràfic di Valencia, ha spiegato come fosse stato loro insegnato a eseguire apnee lunghe, brevi, o della lunghezza che desideravano. “Quando veniva loro richiesto di trattenere il respiro, la loro frequenza cardiaca si abbassava appena prima o quando iniziavano l’apnea. Abbiamo anche osservato che i delfini riducono la frequenza dei battiti di più e più in fretta quando si preparano a trattenere il respiro per un periodo lungo, rispetto alle altre apnee.”

I risultati rivelano che i delfini, e verosimilmente altri mammiferi marini, possono alterare la loro frequenza cardiaca in maniera consapevole, per adattarla alla lunghezza dell’immersione che hanno in programma. Secondo Fahlman, i delfini hanno la capacità di rallentare i propri battiti cardiaci nello stesso modo in cui noi siamo in grado di ridurre la velocità con cui respiriamo. “Questo permette loro di conservare ossigeno quando scendono sott’acqua, e può anche essere la chiave per evitare problemi legati alle immersioni, come la malattia da decompressione”.

Quest’ultima, chiamata anche MDD, è legata all’azoto. A causa dell’elevata pressione dell’acqua quando ci si trova in profondità, l’azoto si discioglie in maggior quantità nel sangue e nei vari tessuti. Se la risalita avviene troppo velocemente, l’eccesso di azoto presente in circolo, alla riduzione della pressione, può formare bolle di questo gas che si comportano come emboli, in qualunque parte del corpo essi si trovino. Inoltre, se si passa più tempo sott’acqua che in superficie, i tessuti non hanno il tempo di eliminare l’azoto in eccesso.

Questo è un grosso problema per noi umani, sia che ci immergiamo con le bombole che in apnea. Nel primo caso, quando si è in profondità, si respirano più molecole dei vari gas, a causa della maggiore pressione, e se l’ossigeno viene consumato in continuazione, l’azoto invece si accumula. Nel secondo caso, fin dai primi studi di Poul-Erik Paulev, ufficiale medico della Reale Marina Danese, risultò che il breve intervallo in superficie spesso non consentiva ai tessuti di eliminare l’azoto in eccesso, e che la pressione parziale dell’azoto nei tessuti risultava essere pari a quella rilevabile dopo un’immersione con mezzi autonomi di respirazione ad aria compressa. L’ostruzione dei vasi sanguigni provoca dolore e diverse altre problematiche, a seconda della parte del corpo colpita, con sintomi assimilabili a quelli di un ictus (debolezza improvvisa in un lato del corpo, difficoltà di linguaggio, capogiri), o di un’influenza. Le bolle di azoto provocano anche infiammazione, con gonfiore e dolore a carico di muscoli, articolazioni e tendini.

Caratteristiche perfette per l’ambiente in cui vivono

A differenza nostra, però, i delfini hanno mostrato di avere la capacità di variare la propria frequenza cardiaca, e non solo per un riflesso condizionato. Ma c’è di più: questo meccanismo non crea benefici solo per la gestione dell’ossigeno, ma permetterebbe anche la coordinazione tra ventilazione e perfusione (ovvero tra il processo di rinnovamento dell’aria respiratoria nei polmoni e quello di passaggio dei gas in circolo e nei tessuti) interferendo con gli scambi di azoto e diminuendoli. Questo spiegherebbe come i vertebrati marini riescano a evitare la formazione di bolle di gas durante immersioni ripetute, e come lo stress faccia inceppare questo meccanismo, provocando di conseguenza scambi eccessivi di azoto.

Capire come i mammiferi marini siano in grado di immergersi per intervalli di tempo molto lunghi è cruciale per mitigare l’impatto sulla salute del rumore sottomarino prodotto dall’uomo. Fahlman ha chiarito come quest’ultimo, causato per esempio dalle esplosioni che vengono utilizzate durante la ricerca di giacimenti di gas e petrolio, è collegato a problemi come la MDD in questi animali. “Se questa abilità di regolare il battito cardiaco è importante per evitare la malattia da decompressione, e l’improvvisa esposizione a un rumore insolito fa fallire questo meccanismo, dovremmo evitare disturbi sonori forti e improvvisi, aumentando invece lentamente il livello di rumore nel corso del tempo per causare meno stress possibile. In altre parole, la nostra ricerca può fornire un metodo di attenuazione molto semplice per permettere a esseri umani e animali di condividere l’oceano in sicurezza.”

Le difficoltà pratiche nel misurare le funzioni fisiologiche di un delfino, come la frequenza cardiaca e la respirazione, avevano in precedenza impedito agli scienziati di comprendere a fondo i cambiamenti nella loro fisiologia durante le immersioni. Il campione dello studio è di dimensioni modeste, i delfini sono in cattività, e sono stati utilizzati elettrodi per l’elettrocardiogramma applicati per monitorare la loro frequenza cardiaca e strumenti personalizzati per misurare la funzione polmonare dei cetacei – ovvero sia i volumi, cioè l’aria contenuta nei polmoni, che i flussi, ovvero la velocità con cui i volumi sono espulsi.

Maschio di tursiope con elettodi per monitorare il battito cardiaco (Cortesia immagine: Mirage, Siegfried and Roy’s Secret Garden and Dolphin Habitat).

“La stretta relazione tra gli addestratori e gli animali è incredibilmente importante quando si insegna ai delfini come partecipare a uno studio scientifico”, spiega Andy Jabas, Dolphin Care Specialist al Siegfried & Roy’s Secret Garden and Dolphin Habitat, riserva faunistica al The Mirage a Las Vegas, dove vivono i cetacei di questo studio. “Questo legame di fiducia ci ha permesso di avere un ambiente sicuro per i delfini per familiarizzare con l’equipaggiamento dedicato e per imparare a portare a termine le apnee in un ambiente di addestramento divertente e stimolante. I delfini hanno partecipato tutti volontariamente allo studio e avevano la possibilità di allontanarsi in qualsiasi momento.”

Se da un lato la capacità emersa da studi recenti rende delfini e altri mammiferi marini perfetti per l’ambiente in cui vivono, all’interno del quale per noi ci sono molti più rischi per la salute se non seguiamo regole precise, dall’altro la nostra presenza sempre più massiccia nel loro habitat li sottopone a stress che possono mettere a rischio la loro vita. Questo dovrebbe aumentare la consapevolezza di quanto la nostra impronta sugli oceani possa essere grande e, in moltissimi casi, nociva e distruttiva.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagini: Pixabay

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Giulia Negri
Comunicatrice della scienza, grande appassionata di animali e mangiatrice di libri. Nata sotto il segno dell'atomo, dopo gli studi in fisica ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” della SISSA di Trieste. Ama le videointerviste e cura il blog di recensioni di libri e divulgazione scientifica “La rana che russa” dal 2014. Ha lavorato al CERN, in editoria scolastica e nell'organizzazione di eventi scientifici; gioca con la creatività per raccontare la scienza e renderla un piatto per tutti.