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Non solo Covid-19: le notizie di salute più importanti del 2020

Sommerse da una marea di informazioni sulla pandemia in corso, nell'ambito della ricerca medica anche quest'anno sono successe diverse cose interessanti.

Quest’anno  è iniziato il 31 dicembre 2019, con la segnalazione  da parte delle autorità sanitarie cinesi di un focolaio di polmonite misteriosa. Durante i primi mesi dell’anno tutti gli occhi del mondo erano puntati sulla Cina. Con il fiato sospeso venivano recepite le notizie su questa nuova malattia, alla quale l’11 febbraio 2020 è stato infine dato un nome: Covid-19, causato dal virus Sars-Cov-2.  Il 21 febbraio il virus arriva in Italia: da quel momento, a causa anche del rapido diffondersi del Covid-19 in tutto il mondo, i media sono stati invasi da notizie a aggiornamenti continui sul virus. Com’è comprensibile, da febbraio non sentiamo parlare d’altro. La scienza ha fatto il grande salto, da argomento per specialisti all’essere in prima pagina su tutti i giornali, ed è tutta concentrata sul testare possibili cure o trovare un vaccino. Molte importanti conferenze mediche sono state cancellate oppure trasferite online, alcuni laboratori di ricerca si sono convertiti a laboratori di ricerca o analisi Covid-19. Ma nonostante tutto ciò, la ricerca ha continuato ad andare avanti anche su altri fronti.

La costante ricerca sull’HIV

L’anno è iniziato con un’importante scoperta in merito al virus dell’HIV-1, la tipologia di HIV più diffusa al mondo, nella misura di oltre il 95 percento dei casi. Grazie a due ricerche, entrambe pubblicate sulla rivista Nature a gennaio, è stato scoperto come il virus possa eludere il sistema immunitario nascondendosi in una forma dormiente. Entrambi gli studi descrivono interventi atti a risvegliare l’infezione negli animali: in particolare per le ricerche sono stati utilizzati topi e macachi reso. La comprensione del meccanismo che porta l’inversione di questa latenza è fondamentale per capire meglio l’infezione, e rendere quest’ultima potenzialmente vulnerabile al sistema immunitario dell’organismo. Un bel passo avanti, anche se gli studi rimangono ancora sul piano teorico, e molta ricerca dovrà ancora essere fatta perché possano tradursi in cure effettive.

Attualmente l’unico approccio per quanto riguarda l’infezione da HIV è dato dalle terapie antiretrovirali, capaci di inibire gli enzimi essenziali per la riproduzione del virus e tenere così sotto controllo la carica virale nel plasma sanguigno. La ricerca per una vera e propria una cura è però quanto mai necessaria. In un articolo pubblicato a novembre su The Lancet, si afferma come “alla luce del crescente carico globale delle nuove infezioni da HIV […] la comunità sanitaria globale deve accelerare lo sviluppo e la fornitura di una cura per l’HIV per integrare le modalità di prevenzione esistenti”. Si stima infatti che ogni anno il numero delle nuove infezioni si aggiri intorno a 1,7 milioni, per un totale di 38 milioni di persone che attualmente convivono con l’HIV. Le altre azioni necessarie sono il miglioramento delle condizioni di vita  e allo stesso tempo della consapevolezza rispetto alla patologia di chi ha contratto il virus, un forte impegno per l’eliminazione dello stigma e del pregiudizio verso questa malattia e un’importante campagna di prevenzione.

Ciò che spaventa di più attualmente è il rischio che la ricerca, la prevenzione e le campagne di finanziamento vengano interrotte dalla situazione pandemica in corso. Uno studio pubblicato a settembre  sempre su The Lancet si è occupato di modellizzare i potenziali effetti dell’interruzione dei programmi per l’HIV nell’Africa subsahariana causati dal Covid-19: tra questi ci sono incremento della mortalità, mancanza di controllo rispetto a nuove infezioni, peggioramento della qualità della vita di chi soffre già a causa dell’HIV. “In sintesi”, scrivono i ricercatori, “durante la pandemia Covid-19 la priorità per governi, donatori, fornitori e comunità  al fine di evitare ulteriori decessi correlati all’HIV dovrebbe essere il mantenimento di una fornitura ininterrotta di farmaci antiretrovirali.”

Le buone notizie di cui abbiamo bisogno: Poliomielite ed Ebola

In un anno così difficile a causa del Covid-19, abbiamo però anche delle belle notizie: l’ARCC – Africa Regional Certification Commission, ha ufficialmente indicato la regione dell’Africa attualmente monitorata dall’OMS  come finalmente libera dalla poliomielite.  La commissione ha infatti dichiarato soddisfatti  i criteri di certificazione per l’eradicazione della poliomielite selvaggia, in mancanza di nuovi casi per quattro anni consecutivi. Questo porta il mondo un po’ più vicino all’eliminazione della malattia: attualmente, vengono registrati nuovi casi solamente in Pakistan e Afghanistan. Una versione indebolita della poliomielite è però ancora presente in questi due paesi, come anche nelle Filippine, Malesia, Yemen e  altri diciannove paesi africani: si tratta  di una versione del virus che nasce naturalmente dal virus della polio indebolito utilizzato nella vaccinazione.

Contro questa tipologia è stato sviluppato un nuovo vaccino, in lavorazione da ben dieci anni. Testato per la sicurezza e l’efficacia, non ha però ancora ricevuto l’approvazione definitiva, e l’OMS sta valutando se approvarlo più rapidamente, secondo il protocollo di emergenza elaborato per l’epidemia di Ebola avvenuta tra il 2014 e il 2016 in Africa. Il nuovo vaccino potrebbe presentare anch’esso dei rischi, e per questo alcuni esperti hanno delle riserve.

A proposito di Ebola: a giugno è finalmente terminata la seconda epidemia più mortale al mondo, la quale ha avuto luogo nella Repubblica Democratica del Congo dal 2018 ad oggi. Quasi 3500 persone ne sono state contagiate, e più di 2000 persone sono morte. Questa epidemia ha dato però anche il via al primo utilizzo diffuso di un vaccino contro il virus, prodotto dalla casa farmaceutica americana Merck of Kenilworth, il quale ha assicurato alla popolazione una copertura circa dell’80 percento. Oltre al vaccino, sono stati sviluppati anche due farmaci a base di anticorpi, che hanno ridotto notevolmente la letalità di Ebola tra i pazienti ospedalizzati.

Lo stato della ricerca sul cancro

Ad oggi, l’immunoterapia è considerata l’ultima frontiera nel trattamento dei tumori, e si basa sul concetto di trattarli come se fossero un’infezione: viene potenziato in maniera mirata il sistema immunitario del paziente in maniera tale da riconoscere le cellule tumorali e annientarle. Né è un esempio il trial DESTINY-Breast 01, presentato da Gina Mauro al SABCS – San Antonio Breast Cancer Symposium, il quale si è concentrato su una tipologia di tumore al seno particolarmente aggressiva, trattandola  efficacemente con il Trastuzumab Deruxtecan, un farmaco antibody-drug conjugate, che coniuga l’azione di un anticorpo monoclonale e un anticancro.

Purtroppo però, in alcuni casi l’immunoterapia non funziona, a causa di particolari caratteristiche genetiche alla base della mutazione cellulare che causa il tumore. In questi casi bisogna comprendere la mutazione in questione e costruire un trattamento personalizzato sul paziente. In questa direzione va lo studio italiano del team guidato da Marcello Maugeri-Saccà, oncologo presso la Divisione di Oncologia Medica 2 dell’IRCCS Istituto Nazionale Tumori Regina Elena: è stata scoperta infatti una particolare mutazione che si presenta nel 10 percento dei pazienti affetti da tumore al polmone, per la quale la terapia immunologica non funziona. Saperlo in anticipo gioca un ruolo fondamentale nel percorso  terapeutico, ed evita al paziente inutili trattamenti.

Si tratta anche di un punto di partenza per la ricerca di terapie mirate, come anche la recente scoperta dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri in collaborazione con AIRC. Per una precisa tipologia di tumore al polmone particolarmente aggressivo e molto difficile da curare, è stato scoperto che inibire una proteina responsabile del coordinamento di altre cellule, la proteina ERK, viene indebolito il tumore. Seguiranno studi preclinici e clinici, ma intanto è stato aggiunto un nuovo tassello per iniziare a lavorare a dei percorsi terapeutici mirati.

Un contributo fondamentale alla ricerca contro il cancro viene anche dall’intelligenza artificiale. Parliamo sempre di cancro al seno: lo screening mammografico è fondamentale per individuare in tempo l’insorgere della malattia, e vi sono programmi di prevenzione in questo senso in tutto il mondo. La loro efficacia è però condizionata dall’alto tasso di falsi positivi e falsi negativi, dettati da scorrette interpretazioni. Sulla base di un ampio database aggiornato, è stato creato un sistema di screening automatico, che in fase di sperimentazione ha ridotto in maniera significativa gli errori di diagnosi: si tratta di un passaggio molto utile per il tempestivo inizio del percorso terapeutico.

L’anno di Crispr-Cas9

Il 2020 è stato, tra le altre cose, l’anno di Crispr-Cas9.  A Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier è stato infatti assegnato il Premio Nobel 2020 per la chimica: il merito è quello di aver trasformato  la famosa e controversa tecnica di editing genetico da procedura lunga e costosa a un’operazione alla portata di qualsiasi laboratorio. Da una parte abbiamo attualmente  il dibattito bioetico sulla problematicità di agire sul codice genetico umano con quelle che possiamo definire delle vere e proprie forbici, le quali “tagliano” e “cuciono” il genoma a piacimento. Dall’altra invece, la sperimentazione di nuove terapie anticancro, il possibile utilizzo di Crispr-Cas9 per curare malattie del sangue o patologie rare come la malattia di Leber (che causa cecità per una degenerazione del nervo ottico),  o ancora per  lo sviluppo di colture resistenti a condizioni naturali avverse. Insomma, la questione è ancora molto complessa. Ormai si tratta di un percorso ben avviato verso nuove scoperte, e non ci resta che vedere dove ci porterà nei prossimi anni.

Nuove conoscenze in fatto di allergie

Il 2020 è stato un anno proficuo per la ricerca nel campo delle allergie. Alla scuola di medicina di Harvard, a Boston, sono stati testati alcuni componenti di comuni prodotti quali saponi, creme e profumi, i quali possono provocare dermatiti causate dalla risposta immunitaria del nostro organismo. Due dei componenti in questione sono molto comuni, e li trovate nell’INCI sotto il nome di  benzyl benzoate e farnesol. A causa delle loro piccole dimensioni molecolari, questi  sono in grado di oltrepassare la barriera protettiva della pelle composta da lipidi e proteine, scatenando forte reazioni da parte delle nostre cellule. Questa scoperta permette ai ricercatori di trovare delle soluzioni per rendere tali componenti meno aggressivi ed evitare fastidiose irritazioni.

Uno studio della North Carolina University ha invece dimostrato quanto sia importante sottoporre fin dalla tenera età i bimbi all’assunzione controllata di arachidi, un allergene per eccellenza. Quest’anno è stata infatti compiuta un’indagine telefonica su alcuni soggetti che avevano preso parte a una terapia immunologica che prevedeva il consumo graduale di snack agli arachidi da parte di bimbi allergici: tre famiglie su quattro ne sostengono il successo, sottolineando come la qualità della vita dei piccoli sia molto migliorata, non dovendo più avere paura di reazioni allergiche significative e non avendo più la necessità di controllare ogni singolo alimento per essere sicuri che non contenga tracce di arachidi.

Ulteriori progressi nel campo provengono da studi sull’allergia alla polvere, per la quale è stata scoperta la proteina  responsabile del manifestarsi dei sintomi quali asma e altre patologie respiratorie. E infine, un’ottima notizia per chi è allergico ai latticini: dall’Università di medicina di Vienna arriva la notizia che la lattoglobulina, proteina responsabile della risposta immunitaria, viene neutralizzata mediante la sua iniezione con  molecole di ferro. Queste infatti arrestano la risposta allergica sul suo percorso e potrebbero persino impedire lo sviluppo di allergie al latte.

Stress e capelli bianchi

Quante volte l’avete sentito dire? “Mi verranno i capelli bianchi se continuo a vivere così”, oppure “da piccolo era una peste, ha fatto venire i capelli bianchi a sua madre”. Ecco, da quest’anno queste affermazioni hanno un fondamento scientifico: in uno studio pubblicato su Nature a gennaio, Bing Zhang e il suo team sono riusciti a identificare il meccanismo biologico che provoca l’ingrigimento precoce su un campione di topi sottoposti a delle situazioni stressanti. La ricerca ha come applicazioni future lo sviluppo di terapie per chi non subisce il fascino del capello brizzolato e una migliore comprensione di come lo stress influenzi il nostro organismo.

È stato un anno stressante per tutti, tra  la paura della pandemia e il cambiamento delle nostre abitudini quotidiane. Ci siamo destreggiati tra continue riunione di lavoro online e spese frenetiche, compiute con gli occhiali appannati dalla condensa della mascherina e accompagnate da voci metalliche che ci intimavano di terminare in fretta gli acquisti. Nel 2021, ricordiamoci però di questo studio: lo stress agisce davvero sui nostri meccanismi biologici, e anche se i capelli bianchi attualmente vanno di moda, sarebbe meglio non farseli venire prima del tempo. Al massimo, possiamo affidare al parrucchiere questo compito, suona davvero più rilassante. Tiriamo un sospiro di sollievo: questo 2020 è quasi terminato.


Leggi anche: Natale con chi puoi, le festività del 2020

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Francesca Zavino
Laureata in filosofia, ho fatto il mio ingresso nel mondo della scienza grazie al Master in Comunicazione Scientifica alla Sissa di Trieste. Quello che più mi interessa è avere uno sguardo aperto, critico e attento sull'attualità e sul mondo scientifico, grazie ai mezzi che la filosofia mi ha fornito durante gli anni