AGNELLI VEGETALIRUBRICHE

Apitoxiterapia, una pratica antica quanto controversa

L'apiterapia è il termine usato per l'impiego di sostanze come miele e propoli. Si parla invece di apitoxiterapia quando entra in gioco il veleno, iniettato direttamente o dopo la diluizione. I risultati sono controversi, con parecchi dubbi su efficacia e sicurezza.

Per apiterapia si intende l’uso di sostanze ricavate dalle api, come il miele, la propoli, la pappa reale o il veleno. In genere, tali prodotti sono utilizzati in vari contesti per alleviare certi sintomi. Il caso più comune a cui, in genere, si pensa è quello di una sensazione di bruciore alla gola, che uno spray alla propoli può aiutare a smorzare. Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione per un particolare tipo di apiterapia – chiamata apitoxiterapia – che prevede l’impiego del veleno di api. Il veleno può essere somministrato dopo averlo estratto e diluito, oppure può essere iniettato in maniera diretta, con una o più punture provocate da altrettante api. La terapia con veleno d’api è stata usata nel contesto di patologie come l’artrite e la sclerosi multipla. L’apitoxiterapia ha mostrato risultati controversi e, a oggi, permangono molti dubbi sulla sua efficacia e, soprattutto, sulla sua sicurezza.

Punture d’api e veleno nei secoli

L’apiterapia è stata apprezzata in una moltitudine di culture e in varie epoche diverse. In particolare, l’idea che il veleno d’api potesse intervenire sui reumatismi, si può riscontrare in alcune medicine tradizionali. Le prime testimonianze moderne dell’apitoxiterapia vengono fatte risalire alla seconda metà del XIX secolo, e alle esperienze di medici come Philipp Terč, il cui percorso di studi fu incentrato nella comprensione degli eventuali benefici delle punture d’api contro l’artrite reumatoide. Tuttavia, il passo fondamentale nella diffusione dell’impiego di veleno d’api a fini curativi si deve alla pubblicazione, nel 1935, del volume Bee Venom Therapy: Bee Venom; Nature and Effect on Arthritic and Rheumatoid Conditions a cura del medico statunitense di origine ungherese Bodog Felix Beck.

Il testo presenta la composizione chimica e gli effetti fisiologici e clinici dell’applicazione del veleno d’api; e riporta una serie di prove e affermazioni che avvalorerebbero l’efficacia dell’apitoxiterapia. Beck, inoltre, presentò una ampia rassegna di letteratura medica e anedottica sul tema. Le reazioni da parte della comunità medica non si fecero attendere. Nel 1936, sulle pagine di Archives of Internal Medicine, il commento alla pubblicazione di Bodog Beck fu impietoso. 

«L’autore accetta come praticamente provata la teoria che le “condizioni reumatiche” sono il risultato di una circolazione alterata. (…) Si afferma che il veleno è particolarmente efficace nei casi di miosite, mialgia, neurite e artrite reumatoide precoce e che è “quasi specifico per la febbre reumatica e l’endocardite”. Le carenze nella presentazione dell’autore sono riconoscibili immediatamente da chiunque abbia una conoscenza intima del problema moderno delle malattie reumatiche. (…) Non un singolo caso dell’autore è presentato in dettaglio o anche in astratto. Non fornisce nessuna tabella dei suoi risultati; viene offerta solo la revisione degli scritti di altri e un riassunto delle testimonianze di privati e apicoltori. Le poche informazioni fornite su un piano di dosaggio o sulla tecnica di somministrazione sono incomplete e mal definite. (…) Si deve concludere che l’autore, con questa grave omissione, ha fallito completamente nel suo scopo, che il valore del veleno d’api è ancora parte del folclore o dell’ideologia medica non scientifica e che la terapia con il veleno d’api attende ancora il suo Jenner*.»
Archives of Internal Medicine. 1936; 57(6):1248-1249.

* Il riferimento è a Edward Jenner, medico e naturalista inglese, considerato uno dei fondatori del concetto di immunizzazione, nonché responsabile dell’introduzione del vaccino contro il vaiolo.

Nel 1938, Bodog Beck pubblicò il volume dal titolo, Honey and health; a nutrimental, medicinal and historical commentary, un esteso trattato sulle proprietà e sulla storia del miele. Continuò a portare avanti la sua opera di disseminazione dell’apitoxiterapia fino alla sua morte, avvenuta nel 1942. Da quel momento, l’interesse generale nei confronti dell’apitoxiterapia si spense gradualmente senza, però, mai sparire del tutto. Qualche decennio dopo, si è tornato a parlare di terapie a base di veleno d’ape. Questa riscoperta ha fatto emergere più di una controversia.

Apitoxiterapia oggi

Le terapie in cui il veleno d’api è usato per scopi medicinali, sono oggi disponibili in tutto il mondo, e sono particolarmente diffuse in Asia, Europa orientale e Sud America. Le diverse applicazioni terapeutiche includono le “classiche” patologie muscolo-scheletriche, come l’artrite e i reumatismi, e si spingono fino ad ambiti di confine, come nel caso di una recentissima ricerca che suggerisce il veleno d’api come rimedio complementare alla COVID-19. 

Il veleno delle api è un liquido incolore, composto da una miscela di peptidi, tossine e altri componenti bioattivi. Il componente principale è un peptide chiamato melittina, che costituisce circa il 50-60% del veleno ed è responsabile della maggior parte dei suoi effetti. Quando applicata al campo – nell’accezione più generale possibile – dei dolori alle articolazioni, l’apitoxiterapia si basa sull’assunto che, in sintesi, il veleno d’api causi un’infiammazione, la quale scatena una risposta anti-infiammatoria da parte del sistema immunitario. Questa risposta anti-infiammatoria comporta un giovamento. L’impiego dell’apitoxiterapia avviene anche nell’ambito di patologie come la sclerosi multipla.

Le cosiddette evidenze aneddotiche di un sostanziale beneficio comportato dal veleno d’api si sprecano. Uno degli esempi è il reportage curato da National Geographic che riporta la vicenda di chi, a Taiwan, si dedica all’apitoxiterapia e ne illustra i vantaggi e i benefici. Nonostante un certo numero di testimonianze (varie, diversificate, su un arco di tempo esteso), ci sono organizzazioni come la Multiple Sclerosis Trust che mettono in guardia chiunque fosse interessato ad avvicinarsi all’apitoxiterapia. 

A seconda del contesto (le indicazioni con cui applicare l’apitoxiterapia possono essere molto diverse) secondo quanto riportato da MST, «la terapia con veleno d’api comporta la somministrazione di un massimo di 40 punture in una sessione. Si usa il ghiaccio per intorpidire la pelle e ridurre il dolore. Ci può essere più di una sessione alla settimana. (…) Ci sono state pochissime ricerche mediche a sostegno della terapia con veleno d’api. Nel 2005 un piccolo studio clinico ha confrontato persone che si sottoponevano alla terapia ogni settimana con un gruppo che non aveva alcun trattamento. I risultati sono stati misurati usando la risonanza magnetica, misurando il tasso di ricaduta, disabilità, fatica e alcune scale per valutare la qualità della vita. Dopo 24 settimane, non è stata trovata alcuna differenza tra i due gruppi su nessuna di queste misure.» Le revisioni che hanno tenuto conto degli studi condotti sul veleno d’api hanno evidenziato risultati alquanto magri

Per il momento, oltre che con gli eventuali benefici riportati, bisogna fare i conti con un elevato rischio di reazioni avverse al trattamento. Anche nel recente passato, si è parlato di alcuni casi di decesso a seguito di una sessione di apitoxiterapia. Queste tragiche vicende hanno fatto emergere come questo tipo di terapia si collochi in una sorta di zona grigia, spesso contraddistinta da protocolli variabili. Da notare come, al momento, permanga una certa approssimazione nei termini di impiego del veleno d’api. A volte si denota una sostanziale sottovalutazione dei rischi, anche da parte di chi somministra il veleno.

In uno dei portali dedicati all’apitoxiterapia si legge che, a seguito del trattamento, «in alcuni pazienti si associano effetti collaterali quali dolori in altre articolazioni ed in altre parti del sistema muscolo scheletrico, affaticamento, tumefazione generalizzata a tutto il corpo, cefalea, nausea e vomito, caduta della pressione sanguigna, aumento della temperatura corporea. Queste reazioni non alterano l’efficacia terapeutica del veleno e non sono considerate un ostacolo al proseguimento della terapia, che potrà continuare utilizzando dosaggi di veleno inferiori a quello che ha scatenato l’effetto indesiderato.»


Leggi anche: In cerca delle api, viaggio dall’alveare all’ecosistema

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: Pixabay

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Gianluca Liva
Giornalista scientifico freelance.