AMBIENTEIN EVIDENZA

Per ridurre le emissioni va ripensato il sistema di produzione del cibo

Le emissioni di gas a effetto serra legate alla produzione (e allo spreco) di cibo potrebbero impedirci di raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Un modello alternativo è possibile?

È il 9 dicembre 2015, siamo a Parigi ed è l’ultima pausa pranzo tra una sessione e l’altra della COP21, la conferenza delle parti sul Clima. Il Ministro dell’ambiente italiano e il suo omologo tedesco discutono amabilmente del futuro del Pianeta mentre mangiano le portate del meritato pasto. Le diverse tavolate sono imbandite, piene di cibo da ogni parte del mondo per soddisfare i palati dei delegati dei quasi 200 paesi che partecipano ai negoziati nella capitale francese.  Quella giornata si chiuderà con la sottoscrizione di un accordo con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra in modo da limitare l’aumento di temperatura sotto i 2°C del livello preindustriale, limitandolo preferibilmente a 1,5°. La conferenza delle parti di Parigi è un grande evento per l’Umanità, e il cibo consumato in quell’occasione è stato sicuramente un aspetto poco significativo, rispetto alla valenza storica dell’accordo. Quello che però i delegati e delegate della COP21 forse non immaginavano è che proprio attraverso il sistema alimentare può passare il mancato raggiungimento degli obiettivi dell’accordo.

Le emissioni di gas serra legate alla produzione alimentare

Il sistema globale del cibo ha, infatti, un impatto enorme sull’ambiente ed è il responsabile del rilascio in atmosfera di oltre un terzo del totale dei gas serra. Proprio le emissioni climalteranti del comparto della produzione, distribuzione e consumo degli alimenti in relazione agli obiettivi di contenimento dell’aumento della temperatura sono state oggetto di uno studio condotto da sette diverse istituzioni accademiche tra gli Stati Uniti e il Regno Unito. Il gruppo di esperti, coordinato da Michael Clark, ricercatore dell’Università di Oxford, attraverso una proiezione basata sui dati degli ultimi 50 anni, ha determinato che se non ci saranno modifiche radicali al sistema alimentare sarà impossibile raggiungere gli obiettivi contenuti nell’accordo di Parigi, anche se tutte le emissioni di gas serra di tutte le altre attività umane si interrompessero immediatamente.

Ma oltre ad analizzare la situazione e fare previsioni con il modello business as usual (ovvero ipotizzando che non venganonprese iniziative per invertire la rotta) i ricercatori e le ricercatrici che hanno pubblicato lo studio su Science, hanno individuato cinque azioni attraverso cui ridurre le emissioni di gas serra. Ottenendo rese più alte in agricoltura, maggiore efficienza dei processi, una minore assunzione di calorie, diete basate su alimenti vegetali e la riduzione degli sprechi alimentari si possono ipotizzare scenari che ci permetterebbero di raggiungere gli obiettivi di Parigi. Tra queste strategie, anche solo l’adozione a livello globale di diete plant-based (ovvero con limitato consumo di carne e derivati animali), il contenimento delle calorie assunte pro capite a 2100 al giorno e la riduzione anche solo del 50%, dello spreco alimentare, determinerebbero la possibilità di raggiungere l’obiettivo del contenimento dell’aumento della temperatura entro 1,5° C rispetto all’età preindustriale.

Troppa carne e troppo spreco alimentare

Per quanto riguarda la composizione della dieta, Clark e i suoi colleghi evidenziano che adottarne una a base di alimenti vegetali riduce l’impatto ambientale, invertendo il trend globale. Infatti, la carne ha occupato sempre più spazio nelle diete di europei e nordamericani, e la domanda sempre crescente ha spinto l’industria della carne a produrre in maniera sempre più intensiva. La produzione di carne supera i 300 milioni di tonnellate e determina un consumo pro capite annuo che nei Paesi occidentali va dai circa si aggira intorno ai 100 kg all’anno , con prevalenza di carne rossa e processata che invece secondo l’Organizzazione mondiale della sanità deve essere limitata a 500 g a settimana. Il fenomeno però non riguarda solo gli stati occidentali, ma anche gli stati con un’economia in forte crescita, dove l’aumento della ricchezza, combinato al più basso costo della carne, ha portato a un aumento della sua assunzione. Questo modello culturale, alimentato anche dalle grandi aziende attraverso il marketing e le pubblicità ubiquitarie, si è imposto determinando un’alimentazione basata sulla carne, a discapito soprattutto dell’ambiente.

Un altro aspetto importante messo in luce dallo studio è quello dello spreco alimentare, a cui è correlata una quantità pari 3,3 miliardi di tonnellate di CO2, secondo il Food wastage footprint Impacts on natural resources realizzato dalla FAO nel 2013. Su questo dato enorme incidono diversi fattori e ad ogni passaggio dal luogo di produzione dell’alimento fino alla tavola una percentuale di cibo finisce nella spazzatura. In generale si può dire che la maggior parte degli sprechi avviene in casa: la riduzione del prezzo dei prodotti alimentari ha portato i cittadini a comprare sempre più cibo di cui effettivamente non si ha bisogno (sotto la spinta della cultura consumista). Ma anche la Grande Distribuzione Organizzata ha delle responsabilità, preferendo prodotti a filiera lunga ed esponendo, per ragioni d’immagine, grandi quantità di prodotti per avere sempre scaffali pieni che finiscono al macero.

Un modello alternativo per raggiungere gli obiettivi di Parigi

Abbiamo affrontato il tema con Elvira Tarsitano, presidentessa del Centro per la Sostenibilità dell’Università degli Studi di Bari. “Se nel secondo dopoguerra la meccanizzazione dell’industria del cibo è stata necessaria per ammodernare i processi produttivi, ora questo fenomeno è arrivato all’esasperazione con una serie di storture. Serve quindi ripensare i modelli di produzione e il modo di vivere”, dice Tarsitano a OggiScienza, indicando una possibile via complessiva per ridurre gli sprechi e adottare un sistema sostenibile. “Oggi abbiamo la tecnologia adatta per produrre cibo in maniera poco impattante, spesso però le logiche del profitto fanno propendere verso scelte diverse, meno sostenibili ma più redditizie. Un ruolo in questa partita deve giocarlo anche la ricerca per spingere la tecnologia verso applicazioni sempre più sostenibili”.

“Il modello alternativo”, propone la scienziata, “potrebbe essere quello della mediterranean way, ovvero lo stile di vita mediterraneo, un modello che non si riferisce solo a questioni nutrizionali, ma abbraccia concetti più ampi e profondi che si riferiscono sia a una specifica modalità di produzione e consumo del cibo che a un determinato modo di concepire il rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Questo modello, in confronto alle diete basate su un eccesso di grassi animali, ha sicuramente un più limitato impatto ambientale perché rispetta la biodiversità, la stagionalità, la frugalità e la riduzione delle produzione di rifiuti. Inoltre la mediterranean way propone anche una rivoluzione culturale ed economica, suggerendo una vita che si sviluppa in comunità piccole che possono corrispondere ai borghi o ai quartieri delle città, per ridurre gli sprechi alimentari e per favorire le piccole produzioni alimentari a filiera corta.”

Un occhio di riguardo, in questo stile di vita (approfondito da Tarsitano sul Journal of Sustainable Development) va ovviamente al ruolo delle istituzioni che possono avere un ruolo di regolatore, soprattutto per quanto riguarda gli sprechi. “Gli enti regolatori possono e devono incentivare economicamente i produttori e i distributori di cibo che mettono in atto modelli virtuosi di riduzione delle eccedenze alimentari, valorizzando anche le diverse iniziative che le organizzazioni del terzo settore mettono in pratica, come far rientrare nella catena della solidarietà il cibo in scadenza”.

Un monito che arriva anche alle istituzioni che a Parigi hanno stipulato l’accordo qualche anno fa: al netto della quantità di carne mangiata o del cibo buttato alla fine di ogni pasto in quell’occasione, bisogna prendere quindi iniziative forti per orientare le scelte di consumo, ma soprattutto per orientare i modelli di distribuzione e di produzione di alimenti per arginare lo sfruttamento di risorse e l’emissione di gas serra da parte delle grandi industrie alimentari. Se non si agisce sul sistema globale del cibo il nostro Pianeta continuerà a riscaldarsi, non raggiungeremo gli obiettivi di contenimento della Temperatura e quello consumato a Parigi nel 2015, sarà davvero cibo sprecato.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Photo by Johnny McClung on Unsplash

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Ruggiero Quarto
Scienziato dei materiali e studente del Master in Comunicazione della Scienza della SISSA. Leggo e scrivo di ambiente e rapporto tra scienza e società.