ricerca

Il rumore che non si sente

Proprio come i bias cognitivi, il “rumore”, sostiene Daniel Kahneman, è alla base degli errori di giudizio che ci accompagnano quotidianamente. Homo sapiens, apparso attraverso un’evoluzione imperfetta, con un cervello imperfetto, può perfezionare i suoi sistemi di ragionamento?

Una sala operatoria, un’aula di tribunale, il consiglio d’amministrazione di una multinazionale. È in questi luoghi che il “rumore” può causare danni irreparabili. No, non viene da fuori; il rumore è dentro la testa, del chirurgo, del giudice, del CEO. Lo sostiene Daniel Kahneman, unico psicologo premio Nobel per l’economia e co-autore del recentissimo “Noise a flaw in human judgment”, insieme al professor Olivier Sibony, esperto di decision making, e al giurista Cass R. Sunstein.

Rumore

Possiamo sperimentare il rumore anche nella nostra quotidianità. Alle 13, prima della pausa pranzo, il livello di zuccheri nel sangue è basso, avvertiamo lo stomaco borbottare e ci sentiamo nervosi, insofferenti, desiderosi di un bel piatto di pasta. Potrebbe capitarci di rispondere in modo sgarbato a un collega o di premere un po’ il piede sull’acceleratore per arrivare prima al ristorante. Un rimprovero dal capo, una multa da pagare per eccesso di velocità: danni ai quali, in genere, possiamo porre rimedio. Ebbene, le conseguenze potrebbero essere ben più gravi se fossimo il chirurgo, il giudice o il CEO. I tre autori presentano un quadro che lascia atterriti. Mostrano infatti uno studio condotto su 22 medici i quali hanno esaminato lo stesso esame clinico a diversi mesi di distanza. Dai dati è emerso che i medici erano in disaccordo con loro stessi, tra la prima e la seconda valutazione diagnostica, in una percentuale che andava dal 63% al 92%. Nulla era cambiato, se non il momento specifico in cui avevano compilato il referto.

Gli errori di giudizio sono anche denominati bias cognitivi. In realtà, gli autori distinguono tra “rumore” e bias. Mentre il primo è frutto di contingenze e causalità del momento, di volta in volta differenti, i secondi rappresentano deviazioni sistematiche del nostro sistema cognitivo, ben identificabili. È come se le freccette – esemplifica Kahneman – mancassero il bersaglio in maniera casuale, nel caso del rumore, oppure in modo coerente, considerando i bias”.

Un sistema (o due?) imperfetto, conflittuale, spesso irrazionale

Entrambi gli errori sono il frutto del peculiare sistema cognitivo di Homo sapiens: un glorioso accidente evoluzionistico, come lo chiamerebbe Telmo Pievani. Imperfetto, perché plasmato dall’evoluzione, fallibile e soggettivo, spesso irrazionale e talvolta autolesivo. Non siamo calcolatori, non siamo macchine perfette di elaborazione dell’informazione, come sostenevano i fautori della teoria dell’utilità attesa. Questa teoria infatti, che concepiva i decisori come perfettamente razionali, i cui comportamenti erano sempre tesi alla massimizzazione dell’utilità, appunto, venne duramente criticata da Kahneman e dal collega Amos Tversky, sul finire degli anni ’70.

I due formularono invece la teoria del prospetto, attraverso la quale descrissero gli effettivi comportamenti dei decisori economici, facendo emergere molte delle distorsioni cognitive oggi note. Il loro lavoro rappresentò una rivoluzione nel campo dell’economia comportamentale, al punto tale da valere il Nobel a Kahneman: unico psicologo a ottenere il prestigioso riconoscimento nel campo dell’economia. Il suo lavoro procedette per anni, fino alla pubblicazione del suo recente best-seller del 2011: “Pensieri lenti e veloci”, in cui con straordinaria chiarezza riassume niente meno che l’attuale stato dell’arte di un’intera disciplina scientifica: l’economia comportamentale, appunto.

Non siamo solo decisori irrazionali, sostiene Kahneman, le nostre decisioni sono il frutto di un duro e costante conflitto tra i due sistemi cognitivi che presiedono al nostro comportamento: sistema 1 e sistema 2, li chiama. Il primo è automatico, impulsivo, involontario, rapidissimo, vittima perfetta dei temuti bias; il secondo è riflessivo, cosciente e lento. Il sistema 1 è sempre in funzione, poiché richiede meno risorse mentali, e il nostro sistema cognitivo è vittima di una costante e irrimediabile pigrizia. Il sistema 2 interviene solo in una parte delle nostre decisioni, quelle più complesse, ed è con esso che identifichiamo il nostro Io. Infatti percepiamo noi stessi come decisori affidabili, attenti e consapevoli, di certo non guidati da un meccanismo automatico e immediato che compie scelte al posto nostro.

Perfezionare un sistema imperfetto?

Prendere decisioni è dunque un compito cognitivo che si avvale di dati tutt’altro che oggettivi. Bias e rumore condizionano ogni singolo individuo, senza eccezioni. Naturalmente è possibile porre un argine al loro campo d’azione. Alcune persone vi riescono meglio di altre per ragioni di tipo neurofisiologico, altre invece imparano strategie “difensive” per arrivare a decisioni quanto più razionali possibile, magari delegando parte della decisione a un supporto esterno. È quest’ultima strada che Kahneman suggerisce di intraprendere. Se la decisione che dobbiamo prendere è complessa e rischiosa, è molto importante affiancare metodi quantitativi a quelli più soggettivi e qualitativi che guidano il sistema 1 (quello veloce e automatico), come prendere visione dei dati statistici relativi a contesti simili in cui le medesime decisioni dovevano essere prese.

Quando iniziamo un’importante riunione di lavoro è bene annotare su un foglio le nostre considerazioni, i nostri punti di vista e le nostre richieste, prima che gli altri colleghi inizino a parlare. In caso contrario le nostre idee iniziali saranno irreversibilmente plasmate da tutto quello che verrà detto dagli altri colleghi, in particolare dal primo che prenderà la parola e dall’ultimo, senza che noi ce ne accorgiamo. Agire in questo modo non significa irrigidirsi sulle proprie posizioni, ma aprirsi al dialogo ben consapevoli delle proprie convinzioni di partenza, per poi magari, consapevolmente, modificarle.

Troppo spesso lasciamo campo libero alle fallacie dei nostri giudizi o talvolta, ancor peggio, le elogiamo. “C’era solo lo 0.5% di possibilità che la società guadagnasse optando per quell’investimento, ma il nostro CEO ha rischiato. È un esempio di straordinaria competenza!”. No, non si tratta di chissà quali doti di previsione, il consigliere è abbagliato dall’entusiasmo, ma soprattutto dal bias di attribuzione. Il successo del CEO ha un nome, molto chiaro: fortuna. Riusciamo a immaginare le potenziali catastrofi di una simile decisione in sala operatoria, magari presa dal chirurgo poco prima della pausa pranzo?


Leggi anche: Che cos’è il comportamento passivo aggressivo?

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Photo by Tingey Injury Law Firm on Unsplash 

Condividi su
Simone Chiusoli
Sono laureato in scienze cognitive e mi affascina tutto ciò che ha l'essere umano come oggetto di studio scientifico. Grazie al MCS della SISSA ho scoperto il potenziale incredibile della comunicazione scientifica e quanto essa si riveli indispensabile oggigiorno. Attualmente mi sto dedicando alla comunicazione dell'evoluzione attraverso una prospettiva interdisciplinare, che faccia dialogare biologia e scienze umane.