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Caldo (im)possibile: cosa ci racconta del riscaldamento globale l’eccezionale ondata di caldo americana

Tra giugno e luglio un’ondata di caldo senza precedenti ha colpito il Nord America. Nella cittadina di Lytton, a nord di Vancouver, si sono sfiorati i 50°C. Con Federico Grazzini di ARPAE abbiamo visto sotto quanti punti di vista questa ondata di caldo è stata realmente eccezionale

Gli abitanti di Lytton, piccola cittadina canadese a nord di Vancouver, non dimenticheranno tanto presto come si è concluso il mese di giugno. Nel giro di dieci giorni, infatti, da una primavera secca e mite, si sono ritrovati a sfiorare temperature sahariane e a vedere le proprie case bruciate dal fuoco. Non sono i soli a soffrire il caldo: oltre che in Canada e negli USA, anche la Russia, la Finlandia e il Medio Oriente hanno raggiunto temperature da record. Che cosa sta succedendo?

Lo abbiamo chiesto a Federico Grazzini, meteorologo presso l’ARPA-SIMC dell’Emilia Romagna,  ricercatore all’Università di Monaco e autore, assieme a Sergio Rossi, del libro Fa un po’ caldo: Breve storia del riscaldamento globale e dei suoi protagonisti (Fabbri Editore).

Le ondate di caldo

Quella che ha colpito il Nord America, e con esso la città di Lytton, è un’ondata di caldo, ossia un incremento anomalo rispetto alla temperatura media di una regione.

«Prendiamo come esempio il British Columbia», che è la provincia canadese dove si trovano Lytton e Vancouver. «Solitamente, nel mese di giugno, in quei territori troviamo che un giorno la temperatura massima è di 21 gradi, quello dopo 24, quello dopo ancora 23 e così via. Se facciamo la media di questi valori, troviamo che oscillano attorno ai 22-23°C. E questa è la temperatura media di quella zona, a giugno».

Quando questo valore si alza in maniera repentina e rimane alto per più giorni di fila, allora siamo in presenza di un’ondata di caldo.

Come funziona un’ondata di caldo

In realtà, le ondate di caldo nascono da un fenomeno meteorologico piuttosto comune: la formazione di zone di alta pressione atmosferica, quelle a cui dobbiamo il bel tempo.

«Quando l’alta pressione su di una regione è particolarmente forte, l’aria viene spinta verso il terreno. Scendendo, però, finisce per comprimersi e scaldarsi. Non solo: muovendosi verso il basso, impedisce la formazione di nubi, il cielo rimane sereno e i raggi del sole scaldano ancor più il suolo. Assieme, il riscaldamento del terreno dovuto all’irraggiamento e quello dell’aria dovuto alla compressione generano temperature molto più alte della norma».

In Canada…

Serviranno studi specifici per capire quale insieme di fattori abbiano reso questa ondata di caldo così intensa. Per ora, si sospetta che possano aver avuto un ruolo sia le Montagne Rocciose, che hanno aumentato l’effetto di compressione dell’aria nei fondovalle, sia la siccità che da mesi imperversa in questi territori.

Le onde di calore che avvengono su un suolo già secco, infatti, hanno maggiore probabilità di generare temperature molto elevate. Quando i raggi solari colpiscono un terreno umido, la loro energia viene assorbita dall’acqua che, scaldandosi, evapora. «Se invece il terreno è tanto secco, la radiazione viene assorbita per intero dal suolo, che finisce per scaldarsi molto di più».

Il ruolo del cambiamento climatico

«Non bisogna poi dimenticarsi del ruolo giocato dal riscaldamento globale, che rende questi fenomeni più frequenti e intensi. Basti pensare che, rispetto al secolo scorso, le ondate di caldo sono il 20-30% più probabili. Un team di ricercatori internazionali ha ultimato a tempo di record uno studio di attribuzione di questo evento giudicandolo praticamente impossibile senza l’effetto del riscaldamento globale indotto dalla attività umane».

Il riscaldamento influisce sul clima in molti modi diversi. Alcuni sono abbastanza intuitivi: se alzo la temperatura media di una zona, quando l’alta pressione finirà per compattare l’aria su di essa e il sole ne scalderà il suolo, inevitabilmente avrò temperature più alte. Questo genera una sorta di amplificazione sugli estremi: per ogni grado di aumento della temperatura media si ha un aumento del doppio sui valori estremi delle temperature minime massime.

Altri invece sono ancora oggetto di ricerca e riguardano il suo impatto sulla variazione dei regimi meteorologici. «In atmosfera sono presenti delle correnti d’aria dette correnti a getto, caratterizzate da creste e ventri. In corrispondenza delle creste abbiamo le zone di alta pressione. Anche se non è ancora del tutto chiaro, sappiamo che il riscaldamento rende queste creste più ampie e stazionarie, e per questo che il rischio che si formi un’ondata di caldo intensa aumenta».

Un evento eccezionale

Quello che i cittadini di Lytton e del nord America hanno dovuto affrontare è un evento eccezionale sotto molti punti di vista.

«Un’ondata di calore genera temperature molto più alte della norma. Ma questo molto più alte, solitamente, rimane contenuto entro i 10 gradi in più». Tornassimo all’esempio del British Columbia, vorrebbe dire che arrivare a 33°C, dieci in più rispetto al valore medio usuale, significherebbe trovarsi di fronte a un’ondata di caldo molto intensa. «Ebbene, a Lytton si sono sfiorati i 50°C, quasi 20°C in più rispetto alla media. Una deviazione eccezionale, che ha visto l’epicentro a Lytton, ma è responsabile di oltre 1000 record di temperatura battuti sulle stazioni meteorologiche di quelle regioni fra il 24 e il 30 giugno di quest’anno».

Per capire lo stupore dei meteorologi di fronte a questo fenomeno, però, bisogna lasciare temporaneamente il mondo fatto di aria, sole, suolo e montagne, ed entrare in quello dei numeri e delle equazioni con cui si fanno previsioni.

Governare l’incertezza

Le previsioni meteorologiche odierne non si basano mai su un’unica simulazione del tempo. Questo perché l’atmosfera è un sistema non lineare, composto da un numero spaventoso di fattori e interazioni, che vanno dal globale al locale, e che coinvolgono anche gli scambi con l’oceano e la terra ferma.

Ricostruire matematicamente questa rete è possibile solo operando una semplificazione. Ma anche fossimo in grado di costruire un modello perfetto, rimarrebbe comunque impossibile sciogliere l’intera matassa d’interazioni. Non solo: è virtualmente impossibile conoscere con precisione le condizioni iniziali dalle quali far partire le simulazioni. Per questo non può esserci una previsione unica e totalmente certa di cosa accadrà.

Di fronte a questa sfida, i meteorologi hanno imparato che «anche se non possiamo avere una previsione perfetta, possiamo comunque stimare l’incertezza di ciascuna previsione». Perciò, per ogni previsione fanno girare il loro modello una cinquantina di volte, partendo da condizioni iniziali leggermente diverse. «Questo processo si chiama previsione di ensemble».

«Se tutte le simulazioni che faccio mi danno proiezioni diverse, allora so che c’è grande incertezza su cosa potrà accadere in futuro. Ma se una buona parte di queste simulazioni, pur con condizioni di partenza diverse, delineano un andamento futuro simile o identico, allora posso concludere che quell’evento è molto probabile, e dovrò riporre grande fiducia nella previsione».

Extreme Forecaster Index

Per comprendere cosa c’entri questa molteplicità di simulazioni con l’ondata di caldo in nord America è necessario un altro piccolo passaggio, che si chiama Extreme Forecast Index. «Quando lavoravo al European Centre for Medium-Range Weather Forecasts, collaborai alla messa a punto dell’Extreme Forecast Index, ideato dal mio collega François Lalaurette, oggi Direttore del dipartimento per le previsioni di MeteoFrance. Sostanzialmente si tratta di un indicatore per misurare quanto estremo sia un evento previsto da un modello. Era il 2003, e dopo la tremenda ondata di caldo in Europa, c’era già la sensazione che ne sarebbero seguite molte altre, per questo occorreva una costruire misura oggettiva che potesse essere applicata ad altri eventi».

I modelli infatti servono a comprendere che cosa accadrà in futuro. Se a uno o due giorni segnalano un’anomalia, ecco che l’Extreme Forecaster Index ci dice di che scala sarà quella deviazione.

«L’indice va da 0 a 1. Più il valore si avvicina a 1, più l’evento è estremo. Quando è 1 vuol dire che l’evento non è mai accaduto nella climatologia conosciuta dal modello», ossia sta per verificarsi qualcosa che quel modello non aveva mai predetto prima di allora.

Un record che sarebbe stato meglio non superare

«A sei giorni dall’evento», ossia a un tempo lunghissimo quando si parla di previsioni meteorologiche, «tutte le simulazioni dell‘ensemble forecast prevedevano il verificarsi di un evento eccezionale, malgrado avessero condizioni di partenza diverse. L’Extreme Forecast Index è rimasto sempre fisso ad 1 fino da sei giorni prima fino al realizzarsi dell’evento, e questo è a dir poco straordinario. Ovvero il sistema di previsione prevedeva con certezza un evento del tutto inedito».

Modelli e scenari futuri

Le parole di Federico Grazzini hanno un sapore dolce-amaro. Dolce nella misura in cui ci mostrano che i modelli matematici usati dai meteorologi (e dai climatologi) effettivamente hanno raggiunto un grado di accuratezza molto elevato. Amaro, perché ricordano quanto la realtà sia difficile da accettare: «Questa ondata di caldo ci ha mostrato che le anomalie non rimangono entro i 10-15°C come si pensava, e quando vediamo previsioni che vanno al di là di quanto visto nel passato facciamo fatica a credere ai modelli; invece dobbiamo farlo e questo evento lo conferma».

La domanda allora è: quanto potrà essere caldo il nostro futuro?

L’epilogo di Lytton

Siccità e ondata di caldo hanno fatto sì che un incendio divampato nella zona di Lytton per ragioni ancora da chiarire abbia trovato terreno per correre. La città è stata evacuata e il 90% degli edifici sono stati inceneriti.

Parlando della crisi climatica e del triste epilogo di Lytton, il quotidiano The Guardian ha titolato Nessun luogo è al sicuro. Potremmo aggiungere anche che il cambiamento è ora, non domani.

Per concludere, però, vorremmo citare una riflessione fatta sui suoi social da Antonio Scalari, giornalista scientifico per Scienza in Rete e Valigia Blu:

Sulla crisi climatica non servono narrazioni tranquillizzanti. Non servono nemmeno narrazioni apocalittiche (“non c’è più nulla che possiamo fare”). Serve una corretta comunicazione della scienza (e dell’incertezza che ancora la caratterizza) e delle politiche. Serve ricordare che abbiamo le soluzioni, che gli obiettivi sono ancora alla nostra portata, che la transizione produrrà tanti più benefici – anche oltre il problema del riscaldamento globale – quanto più sarà rapida ed efficace.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Elisa Baioni
Laureata in Scienze Filosofiche all'Università di Bologna. Frequenta il Master in Comunicazione della Scienza 'Franco Prattico' di Trieste. Ha scritto per Galileonet; per Rickdeckardnet e per Animal Studies. Collabora con le scuole per attività di didattica formale e informale. Appassionata di scienza, etiche ambientali e postumanesimo. Preoccupata per il brutto clima.