ANIMALI

Anche le tartarughe vedono le facce nelle nuvole?

Elisabetta Versace, ricercatrice in psicologia presso la Queen Mary University di Londra ci illustra alcuni importanti (e a volte inattesi) risultati sullo studio dei neonati di specie di vertebrati. E ci spiega quali importanti ricadute potrebbero avere questi studi, dal nostro rapporto con le intelligenze artificiali all’autismo.

Chi non ha mai provato la frustrazione di interagire al telefono con un assistente virtuale che non riesce a capire frasi e concetti banalissimi per un essere umano? Perché le macchine riescono a surclassarci nella soluzione di complesse equazioni e nell’elaborazione di milioni di dati, ma falliscono in compiti banali? Il paradosso di Moravec secondo cui quel che ci risulta facile è difficile per le macchine e viceversa, potrebbe iniziare fin dalla tenera età o fin dalla nascita, quando mettiamo in atto comportamenti spontanei, che non abbiamo appreso, ma ci vengono in dotazione dal passato evolutivo dei nostri antenati. E in effetti lo studio di comportamenti non appresi riserva spesso sorprese e risultati interessanti: l’equipe della dottoressa Elisabetta Versace ha analizzato, negli ultimi anni, la reazione spontanea di neonati di diverse specie animali ad alcuni precisi stimoli visivi, per capire come diverse specie reagiscano di fronte a potenziali indizi importanti. Allo stesso tempo ricercatori dell’Università di Trento, guidati dal professor Giorgio Vallortigara (professore di Neuroscienze presso l’università di Trento e già direttore del Centro Mente e Cervello) hanno notato come sia pulcini, sia neonati di umani siano attratti da immagini che presentano una struttura simile a un viso o a un muso. Insomma, un’immagine che raffigura una configurazione con due punti in alto (come gli occhi) e uno in basso (la bocca) risulta per i neonati gallinacei e umani più interessante di una figura che presenta altre configurazioni (per esempio tre punti allineati o due punti sotto e uno sopra).

Questa preferenza spontanea per le facce, presente fin dalle prime ore di vita, ha fatto pensare che bambini e pulcini siano sintonizzati sulle caratteristiche che possono segnalare la presenza di una mamma che possa provvedere alle cure parentali…

E se invece questa preferenza fosse più generale, e non dipendesse dalle cure parentali?

Per scoprirlo, la dottoressa Versace ha spostato l’interesse su specie prive di cure parentali: le testuggini di terra. A maggio, i ricercatori si sono appostati per intercettare le uova deposte dalle tartarughe nel terreno e spostarle nelle condizioni controllate del laboratorio di Sperimentarea, una struttura del Museo Civico di Rovereto, dedicata a ricerca e conservazione.

Alla schiusa, le piccole tartarughe sono state accudite individualmente, facendo attenzione a non far vedere loro nessuna faccia.

Lo scopo dello studio della dottoressa Versace è stato cercare di comprendere se l’interesse per facce e musi si sia evoluto nelle specie con cure parentali, o se sia una preferenza comune anche ai vertebrati non sociali, i quali potrebbero comunque avere dei vantaggi nell’individuare la presenza di esseri viventi. Il 75% circa delle tartarughe prive di ogni esperienza ha preferito rivolgersi all’immagine simile a un volto, risultati comparabili a quelli dei pulcini e degli esseri umani. Non sembra quindi che le cure parentali siano la chiave per spiegare la precoce preferenza per i volti.

La spiegazione del fenomeno va probabilmente ricercata nel fatto che l’abilità di riconoscere la presenza di un animale (che sia della propria specie o un predatore) sia sempre vantaggioso e che, come tale, sia stata tramandata geneticamente ai discendenti. Il fatto che tale riscontro si sia avuto su varie classi di vertebrati e con vari tipi di esperimenti (è stato notato per esempio che anche il movimento biologico, fatto di naturali accelerazioni e decelerazioni, attiri maggiormente l’attenzione rispetto a un movimento a velocità costante e perciò potenzialmente inanimato) fa pensare che tali caratteristiche siano molto importanti e ancestrali: che fossero cioè presenti anche negli antenati delle nostre specie attuali.

Insomma, questi esperimenti sembrano evidenziare come anche gli animali, nemmeno troppo vicini a noi (come rettili e uccelli) abbiano la capacità di vedere e immaginare facce anche dove non ci sono, probabilmente perché questa capacità è un’abilità utile alla sopravvivenza. Comprendere quali siano le nostre conoscenze pregresse, che non dipendono dall’apprendimento, potrebbe quindi essere la chiave per aiutare anche l’intelligenza artificiale a comprenderci meglio.

Le possibili ricadute sugli studi che riguardano lo spettro autistico

Il fatto che in diverse specie di vertebrati i neonati siano già sintonizzati sulle caratteristiche distintive degli esseri viventi ha delle ricadute importanti: alcuni studi sui neonati ad alto rischio di sviluppo dell’autismo, come gli studi di Giorgio Vallortigara, hanno evidenziato come la preferenza di immagini con pattern simili a facce sia presente nel gruppo di controllo ma non sempre nei bambini con un maggiore rischio di sviluppare disturbi nello spettro dell’autismo. Ecco che, con un semplice test, una possibile predisposizione all’autismo potrebbe essere individuata già nelle prime settimane di vita del neonato e non attorno ai tre anni come accade attualmente. Tutto questo è stato possibile usando i pulcini come modello animale, molto più facili da gestire dal punto di vista etico e pratico rispetto ai neonato umani.

Ma i pulcini potrebbero essere utili anche in modo diretto, per comprendere meglio i fenomeni dello spettro autistico: la dottoressa Paola Sgadò, biologa molecolare al Centro Mente e Cervello dell’Università di Trento, assieme a Vallortigara, sta studiando gli effetti dell’iniezione di acido valproico nelle uova dei pulcini. Questa sostanza è un farmaco antiepilettico di cui non si conoscono gli effetti sul sistema nervoso. La somministrazione di acido valproico durante la gestazione aumenta il rischio di autismo, nell’uomo così come in molte specie animali. In un gruppo di pulcini a cui è stato iniettato questo farmaco è stata evidenziata una significativa soppressione delle predisposizioni sociali spontanee (come ad esempio l’interesse verso i pattern simili a una faccia, oppure la preferenza per movimenti animati). Ciò suggerisce che si possano studiare le basi neurali dell’autismo usando i pulcini come animali modello, con tutti i vantaggi che ciò comporta”.

Tornando agli umani, è importante intervenire in modo tempestivo: “le predisposizioni spontanee non sono qualcosa di innato, che abbiamo per sempre: hanno una loro periodicità” sottolinea la Dottoressa Versace. “Pensiamo per esempio alla predisposizione per l’apprendimento di fonemi e lingue nuove: è una capacità che, come noto, diminuisce fortemente dopo l’adolescenza. Con i pulcini stiamo studiando i periodi sensibili, quelli in cui alcuni tipi di stimolazioni hanno una maggiore importanza: la plasticità di alcuni settori del sistema nervoso può essere circoscritta a periodi precisi e capire come “riaprire” i periodi critici rappresenta una sfida che potrebbe portare a miglioramenti in molti ambiti: dalla correzione dell’occhio pigro, all’apprendimento delle lingue straniere, al recupero dopo un ictus. Stiamo studiando l’uso di ormoni tiroidei a questo scopo e abbiamo scoperto come la possibilità di ripristinare la predisposizioni spontanee possa passare attraverso queste sostanze”.


Leggi anche: Autismo, è ora di cambiare approccio nella ricerca

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

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Carlo Rigon
Di formazione umanistica, ha conseguito il Master in Comunicazione della scienza presso la SISSA di Trieste. Insegnante, si occupa con scarso successo e poca costanza di tante cose. Tra i suoi progetti più riusciti un "museo del dinosauro giocattolo", ora chiuso.