AMBIENTE

E se il mare del passato fosse stato più basso di quanto crediamo?

Uno studio rivede al ribasso il livello medio raggiunto dagli oceani durante l’ultimo periodo interglaciale, quando le temperature non erano molto diverse da quanto ci si aspetta nel prossimo futuro

All’incirca 125 mila anni fa il pianeta si trovava nel periodo più caldo dell’ultimo interglaciale: il livello del mare era 6 o 9 metri più alto di quello attuale mentre la temperatura media globale era di 1,5-2 gradi centigradi più alta rispetto a quella preindustriale. Uno scenario, quest’ultimo, non molto diverso da quello ritenuto più plausibile dall’IPCC – cioè quello a emissioni intermedie di gas serra – previsto nel 2100. Ciò nonostante, l’aumento futuro del livello medio del mare dovrebbe assestarsi tra i 60 e gli 80 centimetri entro la fine del secolo. Dal momento che del domani non c’è certezza, uno studio pubblicato su PNAS, e coordinato da Blake Dyer, professore di geoscienze all’Università di Victoria in Canada, guarda al passato per cercare di spiegare questa discrepanza.

“Che durante l’ultimo periodo interglaciale il livello medio del mare potesse superare quello attuale di 6, o anche 9 metri, è una convinzione ben attestata tra la comunità scientifica, di cui si trova riscontro già negli anni ’60 del secolo scorso” premette Alessio Rovere, ricercatore presso l’istituto MARUM dell’Università di Brema, tra gli autori dello studio. “Eppure, gli attuali modelli previsionali ci dicono che, per provocare un simile innalzamento, dovrebbe fondere una porzione significativa di Groenlandia e Antartide Occidentale, oltre che, con buona probabilità, anche una parte dell’Antartide Orientale. Un evento, quest’ultimo, di cui mancano le prove e che, inoltre, richiederebbe una quantità di calore ben al di sopra dei peggiori scenari climatici futuri: gli stessi modelli faticano a includerlo” prosegue Rovere, ricordando il colossale volume e la grande stabilità della calotta antartica orientale.

La quadratura del cerchio potrebbe passare per il cosiddetto rimbalzo isostatico

Per capire questo processo geologico bisogna fare un passo indietro fino alla formazione delle calotte glaciali. Il graduale accumulo di ghiaccio nel corso dei secoli provoca infatti lo sprofondamento del suolo: al termine dell’ultima glaciazione, all’incirca 15.000 anni fa, il ghiaccio che ricopriva l’America settentrionale aveva premuto il mantello terrestre a centinaia di metri in profondità. “Tuttavia, la Terra è elastica: ciò che scende in un punto sale in un altro, come quando si schiaccia un palloncino di gomma tra le mani” chiarisce Rovere. Al di fuori delle regioni che si trovavano al di sotto delle calotte – la Scandinavia si solleva tuttora di circa 10 millimetri all’anno – il comportamento di queste deformazioni è ancora poco compreso.

Nel tentativo di capirne di più, i ricercatori si sono recati alle Bahamas per datare, tramite metodo radiometrico uranio-torio, antiche barriere coralline e altri depositi marini fossili cementati nella roccia. Studi precedenti hanno infatti suggerito che le increspature topografiche prodotte dalle glaciazioni dell’America settentrionale abbiano interessato l’attuale costa orientale degli Stati Uniti fino a raggiungere questo arcipelago caraibico. In altri termini, la presenza di una calotta posta a migliaia di chilometri di distanza avrebbe provocato l’innalzamento delle Bahamas; in seguito alla sua scomparsa, le isole avrebbero iniziato a sprofondare lentamente. Ma esattamente quanto, e quando, rimaneva poco chiaro.

“Non essendo interessata da grandi faglie, la tettonica delle Bahamas è molto stabile e, inoltre, l’arcipelago si estende da nord a sud per quasi mille chilometri: queste isole sono il luogo ideale per capire in quale posizione si trovassero, durante l’ultimo interglaciale, i depositi che oggi osserviamo a dieci metri di altezza dalla spiaggia” spiega Rovere. I ricercatori hanno esplorato sette isole alla ricerca di formazioni fossili simili, risalenti alla stessa epoca. Le analisi hanno rivelato innanzitutto l’esistenza di un gradiente isostatico lungo il transetto composto dalle sette isole campionate: al crescere della latitudine, i cicli di sollevamento e subsidenza risultavano sempre più accentuati. In altri termini, l’effetto del rimbalzo diminuiva con l’aumentare della distanza dalla posizione occupata un tempo dalla calotta. Aggregando le misurazioni, i ricercatori hanno concluso che, con ogni probabilità, le isole più a nord sono sprofondate fino a 10 metri durante l’ultimo periodo interglaciale, mentre quelle più sud sono sprofondate di circa 6 metri.

In seguito, i ricercatori hanno combinato questi risultati con centinaia di modelli geofisici, analizzati con sofisticate tecniche statistiche, per capire come il rimbalzo isostatico abbia potuto propagarsi e dunque hanno provato a risalire al livello medio globale del mare. Secondo i loro risultati, durante l’ultimo periodo interglaciale gli oceani raggiunsero verosimilmente un picco di almeno 1,2 metri più alto di oggi, più o meno in linea con la maggioranza dei modelli attuali sulla fine del nostro secolo. Un improbabile limite superiore si sarebbe potuto attestare a 5,3 metri, comunque ben lontano dall’intervallo 6-9 metri finora ritenuto valido. “Un innalzamento di 5 metri potrebbe originare dalla fusione della calotta di Groenlandia e di parte di quella dell’Antartide Occidentale, eventi compatibili anche secondo gli scenari futuri” conclude Rovere. Per ricevere la benedizione della comunità scientifica, i risultati dello studio ora dovranno venire confermati da nuove indagini condotte in altre regioni del globo, per verificare che quanto osservato alle Bahamas non sia frutto di condizioni locali peculiari. Di certo, il primo sasso nello stagno, anzi nel mare, è stato lanciato. Comunque vada, potrà aiutarci a capire meglio non solo il passato, ma anche il futuro del nostro pianeta.


Leggi anche: Nazioni Unite sul clima: la Terra di oggi è la più calda degli ultimi 125.000 anni

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Pixabay

Condividi su
Davide Michielin
Indisposto e indisponente fin dal concepimento, Davide nasce come naturalista a Padova ma per opportunismo diventa biologo a Trieste. Irrimediabilmente laureato, per un paio d’anni gioca a fare la Scienza tra Italia e Austria, studiando gli effetti dell’inquinamento sulla vita e sull’ambiente. Tra i suoi interessi principali vi sono le catastrofi ambientali, i fiumi e gli insetti, affrontati con animo diverso a seconda del piede con cui scende dal letto.