STRANIMONDI

Guida pratica alla costruzione di universi: V puntata

Questa settimana studiamo il caso di Avatar e del mondo di Pandora

Nel precedente articolo, abbiamo evidenziato come Tolkien abbia creato un mondo indipendentemente dai suoi romanzi (tanto è vero che l’autore arriverà alla apparente paradossale affermazione che il Signore degli anelli avrebbe potuto benissimo non essere scritto). Insomma, nel caso di Tolkien l’universo (un universo già ben formato e coerente) è nato prima delle storie che lo hanno poi reso celebre.

Oggi ci occuperemo di un universo narrativo diametralmente opposto, cioè la luna di Pandora del film Avatar (regia di James Cameron, 2009). Pandora dovrebbe essere il setting anche del secondo capitolo della saga, previsto per il 2022.

Pandora, un mondo che si illumina al passare della storia

Anche qui esiste una lingua artificiale, parlata dai Na’vi, il popolo protagonista del film (e creata dal linguista Paul Frommer, su commissione del regista) e un mondo costruito meticolosamente in molte sue parti. Ma in questo caso lingua e mondo sono stati costruiti e sviluppati a posteriori, in funzione della storia e della sua rappresentazione. In una famosa scena del film i due protagonisti, Jake e Neytiri, stanno camminando di notte in una foresta di Pandora. Ciò che rende magica e onirica la scena è che ogni pianta al loro passaggio si illumina. Trasportando questa immagine sul piano della creazione del film, potremmo dire che si illuminano (vengono cioè create) soltanto quelle parti di Pandora che entrano in contatto con i protagonisti, con la vicenda narrata dal film. È stata insomma la storia a creare Pandora e non viceversa.

Il mondo raccontato in Avatar nasce infatti da una sceneggiatura che Cameron stesso aveva scritto quasi di getto dieci anni prima e che poi aveva tenuto nel cassetto in attesa che Hollywood raggiungesse una tecnologia abbastanza avanzata da rendere il film realizzabile. Intendiamoci, con un po’ di artifici Cameron avrebbe potuto girare il film anche negli anni Sessanta: in alcuni film dell’epoca – Il pianeta delle scimmie, per fare forse l’esempio più famoso – gli uomini appaiono poco: le scene sono occupate da popoli e protagonisti alieni o non umani. Ben difficilmente però il regista sarebbe riuscito ad ottenere quell’alchimia di stupore e credibilità che era uno dei presupposti della sua ricerca. Cameron insomma sapeva che la sceneggiatura che aveva scritto era potenzialmente vincente ma allo stesso tempo estremamente delicata, difficile da trasporre su pellicola.

Avatar è probabilmente ancora oggi uno dei film che ha usato le tecniche di computer graphic più spettacolari e invasive della storia del cinema, ma lo spettatore non doveva accorgersi degli effetti speciali, doveva assistere a una vicenda ambientata in un mondo sul quale sarebbe sembrato naturale vedere anche un documentario. Il film doveva trattare allo stesso tempo di un pianeta alieno, sbalorditivo ma che doveva anche sembrare familiare, per veicolare un messaggio e per permettere allo spettatore di interessarsi alla sua storia. Il problema non era soltanto tecnico, ma estetico: Cameron voleva un mondo che, prima che spettacolare, apparisse reale. Il massimo successo della tecnologia (come quello di un buon arbitro, si dice, o come quello di Dio in una delle più interessanti puntate di Futurama) era fare in modo che nessuno si accorgesse della sua presenza.

Per Cameron è stata cruciale quindi la scelta dei collaboratori giusti: di chi doveva aiutarlo a limare, sgrezzare, ma soprattutto a rendere concrete e vive le creature di Pandora. In alcuni casi Cameron aveva già fatto delle bozze, soprattutto di animali ( il Viperwolf o il Thanator sono essenzialmente delle sue creazioni, qui alcuni schizzi): di queste creature mancavano “solo” l’animazione e i dettagli. Ma i dettagli non sono una cosa di poco conto: più la ricostruzione è minuziosa e realistica, più un dettaglio poco curato risulterà stonato ed evidente.

In altri casi Cameron aveva le idee molto meno chiare, ma sapeva ciò che voleva e ciò che non voleva; sapeva quali animali, piante, pietre, che gli venivano proposti dai suoi collaboratori potevano “abitare” a Pandora e quali no. In questi casi insomma il regista non aveva in mente delle immagini ben precise, ma aveva in mente quello che gli anglofoni chiamano il look&feel della sua opera. Con le parole dello stesso Cameron: “Il processo creativo di un film come Avatar richiede la partecipazione di molti artisti e di molte menti che si uniscono per una causa comune. Dopo aver cercato e selezionato i migliori in tutto il mondo, li abbiamo lasciati liberi di esprimersi: subito si sono scatenati in tutte le direzioni, ampliando il campo ben oltre i limiti che avevo immaginato. Mi sono visto costretto a richiamarli all’ordine, persuadendoli a tornare alle idee originali così come le avevo formulate. Naturalmente non si è trattato di un sistema rigoroso, poiché le creature non esistevano ancora come forme definite, ma solo come pallidi fantasmi, ipotesi, esseri in potenza. Eppure quelle sagome sbiadite sono bastate a guidare la fase di progettazione, e così, in maniera che a questa squadra di artisti eccezionali sarà sembrata quanto meno arbitraria, ho passato al setaccio le idee finchè le forme e i colori degli animali hanno iniziato ad affiorare”.

I creatori del mondo di Pandora hanno lavorato divisi in team: in particolare un gruppo si è occupato dello sviluppo degli animali, un altro degli ambienti, un terzo della creazione dei Na’vi e degli Avatar (compito, quest’ultimo, non banale: gli Avatar infatti dovevano conservare tratti e caratteristiche espressive degli umani da cui erano stati creati), un ultimo gruppo si è occupato di tutta la tecnologia umana (armi, astronavi, mezzi di locomozione, ecc.).

Può apparire curioso l’iter per la creazione di vestiti e monili dei Na’vi: dopo essere stati progettati sono stati realizzati concretamente, per dare agli animatori (anche facendoglieli toccare, facendogli provare la consistenza) più informazioni, dati e sensazioni su come dovessero muoversi al vento, ciondolare, svolazzare abiti e collane. Solo in seguito questi oggetti sono stati realizzati al computer. Insomma: si sono realizzati degli oggetti concreti – con vari esperimenti e discussioni su materiali e forme da utilizzare – solo per poi crearne delle immagini al computer: è stato creato un ampio guardaroba alieno che poi in realtà non ha mai indossato nessuno. Ovviamente la comunicazione tra questi gruppi era costante: le creazioni, gli sviluppi e i punti di arrivo di un gruppo influenzavano il lavoro degli altri e il tutto doveva trovare un equilibrio e un’armonia.

Il mondo di Pandora nasce quindi non solo dopo la vicenda narrata da Avatar, ma anche dopo la stesura dell’organigramma dei collaboratori. Cameron opera come una divinità che crea un mondo (o meglio, un’idea di mondo) e dopo aver spiegato qual è il suo progetto generale e anche alcuni progetti più specifici , affida a divinità minori (i disegnatori, gli animatori, e a scalare tutti gli artisti e i tecnici) il compito di popolarlo di animali e piante alieni. Il delicato incarico che Cameron affiderà a sé stesso, oltre a quello, al principio, della scelta delle “divinità”collaboratrici, sarà quello di indirizzare le creazioni, di controllare gli sviluppi delle sue creature, magari anche bloccando alcuni slanci di creatività, tarpando le ali (letteralmente, nel caso degli animali volanti) a soluzioni troppo fantasiose che stavano portando alla creazione di esseri lontani da quel mondo così come lo aveva immaginato e come si stava delineando, o cercando di sbloccare creature che non riuscivano ad evolversi in modo convincente. Insomma: filtrare, moderare e mediare idee e creazioni che si stavano via via accumulando, fermare soluzioni che stavano diventando troppo aliene, cercando di non cadere in quelle più ovvie.

Una selezione artistico-darwiniana

Gli animali di Pandora sono nati per accumulo, di disegni, di particolari, di dettagli, di soluzioni. In un’evoluzione artistica quasi darwiniana si sono poi persi alcuni tratti e aspetti degli animali, e se ne sono sviluppati altri. Alcuni rami evolutivi si sono estinti presto, altri sono stati più fertili. Alcune creature sono durate il tempo di un bozzetto, di altre si sono conservate tracce fin sullo schermo. Quelle che vediamo nel film sono alcune delle miriadi di creature che sono state create per Avatar; quelle che sono sopravvissute a una sorta di selezione artistico/naturale e che le ha rese più adatte a vivere in quel film, in quell’ecosistema. Dalle mille versioni possibili di ogni creatura si è arrivati ad una, quella che, a detta di Cameron, meglio si integrava con il restante ecosistema che veniva al contempo creato. Quello che vediamo nel film è il rigoglioso (perché in continuo cambiamento, nei disegni degli autori) mondo di Pandora a uno stato della sua creazione, un’istantanea presa da un momento del suo sviluppo. Se i creativi avessero avuto un giorno o un mese in più o in meno per lavorare sulla flora e sulla fauna, probabilmente avremmo visto un film con la stessa storia ma paesaggi, animali, piante, un po’ diversi.

Quello che Cameron voleva ottenere (e che, probabilmente, avrebbe determinato il successo o l’insuccesso del suo prodotto) era un equilibrio tra spettacolarità e plausibilità, alienità e familiarità. Questi equilibri (ne abbiamo già parlato e avremo occasione di riparlarne) sono estremamente importanti e sono spesso al centro degli sforzi e dell’attenzione di qualunque creatore di universi. Ottenere la spettacolarità e l’alienità non è particolarmente difficile. Non è difficile creare animali fantasiosi, come lo può essere una bestia che ha sei zampe, striscia come un cane, ma si arrampica sugli alberi come una scimmia. La cosa più difficile è farlo accettare al pubblico., renderlo credibile. E una volta che lo spettatore lo ha accettato come possibile, farglielo sentire vicino, fare in modo che gli comunichi qualcosa emotivamente, fargli sentire, anche se solo per un attimo, che potrebbe capitare anche a lui, magari tornando a casa dal cinema e passando per il parco, di essere aggredito da un branco di quelle bestie (nel film sono chiamati Viperwolves). Esaminiamo quindi quali sono stati gli strumenti che Cameron ha usato per ottenere plausibilità e familiarità.

Ti ho preso il naso

Per rendere il mondo di Pandora credibile i disegnatori si sono attenuti a uno dei principi aurei dell’evoluzionismo: se una cosa esiste (nella maggior parte dei casi) è perché ha un utilizzo, perchè serve a qualcosa. La forma di un organo, di un elemento in un corpo è data dalla sua funzione. Ogni dettaglio presente negli animali doveva avere una sua utilità; ogni elemento del mondo di Pandora doveva trovare un motivo per esistere, altrimenti non sarebbe stato credibile. La credibilità quindi oltre a un traguardo, è stata uno strumento, uno scalpello nella costruzione del mondo di Pandora. Per rendere le creature credibili, Cameron le ha dotate di un minimo comun denominatore simile, mettendo in evidenza perciò una comune derivazione.

La peculiarità più interessante e più importante per il ruolo che ha nella storia e per la filosofia che soggiace al film è il legame (o tsaheylu, nella lingua Na’vi), una connessione bioneurochimica che permette alle creature che si uniscono di sentire l’una il corpo dell’altra come fosse il proprio. I Na’ vi usano lo tsaheylu per controllare le creature che cavalcano, in particolare le Banshee e i Direhorse, senza bisogno di parlare o fare gesti.

Un’altra caratteristica che ha grande risalto è la bioluminescenza, di cui sono dotati tutti i viventi di Pandora e che è forse una delle particolarità di maggior impatto nella resa estetica del film. Cameron in questo è stato sicuramente influenzato dai suoi viaggi suboceanici (che in genere lo hanno portato a contatto con creature aliene, oltre che nell’aspetto, nel modo di vivere).

Altro elemento notevole è la presenza di sei zampe (tipica sulla terra degli insetti) trasposta su animali che assomigliano ai nostri vertebrati.

Un altro tratto, meno evidente ma che accomuna tutti gli animali di Pandora, è l’assenza del naso e delle narici; la respirazione degli animali avviene attraverso una sorta di branchie, poste sul torace.

Ha sei zampe, le branchie sulcollo, il muso da formichiere: è un cavallo!

La mancanza di organi che consideriamo importanti (come la bocca, il naso, gli occhi) sulla testa, è facilmente accettata quando presentiamo immagini stilizzate (hello kitty non ha la bocca), ma suscita invece un certo disagio in immagini realistiche o fotomontaggi (per esempio, come Peter Gabriel nella copertina del disco dei Genesis The Lamb Lies Down on Broadway). Far sparire il naso a una creatura rendendola comunque realistica (come la Banshee e gli altri animali di Pandora) è quindi un lavoro complesso e delicato.

Non è facile far sparire il naso senza che se ne accorga nessuno, senza creare un certo smacco nello spettatore e, in effetti, come più volte ribadito, una delle sfide più difficili per Cameron e il suo team è stata creare animali che risultassero, nel loro essere alieni, familiari. Una delle “tecniche” usate da Cameron, una delle linee guida per mantenere la rotta verso la familiarità è stata la metafora. Cameron cioè si è chiesto con che animale terrestre gli spettatori (e prima ancora i suoi creatori) avrebbero dovuto identificare l’animale di Pandora. Insomma: il direhorse è un cavallo, ma perché è un cavallo? In fin dei conti ha sei zampe, quattro occhi, le branchie sul collo e il muso da formichiere: perché mai lo spettatore dovrebbe vederlo come un equino? Cameron ha cercato di risolvere il problema chiedendosi che cos’è, nell’essenza, un cavallo, quali sono le immagini, le sensazioni che suscita in noi (a livello pre-razionale). Ha poi cercato di trasferire queste qualità astratte nel direhorse, e si è fatto guidare da queste caratteristiche per costruirlo. 

È come se cavallo e Direhorse provenissero dallo stesso archetipo, dalla stessa – se vogliamo – idea platonica (la teoria delle idee di Platone è spiegata con una metafora molto efficace da J. Gaarder nel suo Il mondo di Sofia: l’idea platonica è come una formina dei biscotti, in sé perfetta e non deformabile, dal forno o da altri agenti esterni; dalla stessa formina si possono ricavare biscotti simili ma a ben guardare ognuno un po’ diverso: quello più cotto, quello meno cotto, quello al cocco, quello al burro). Ed è come se Cameron avesse chiesto ai suoi creativi di partire dal cavallo, arrivare all’idea di cavallo e scendere dall’idea con qualcos’altro, con un’altra creatura.

Lo stesso discorso è stato applicato agli altri animali, piante, paesaggi di Pandora: tutto doveva sembrare al tempo stesso alieno e familiare. L’operazione più difficile per Cameron è stata quella di trovare il compromesso più efficace tra soluzioni troppo ardite ed altre che rischiavano di cadere nel cliché. Parlando delle banshee, altro animale molto importante nella narrazione, Cameron afferma “alcuni dei primi studi avevano un aspetto davvero alieno, che faceva pensare a una manta o a un caccia; poi, nel tentativo di tornare a forme più familiari, abbiamo rischiato la banalità con gli pterodattili e i draghi. L’obiettivo è diventato quello di combinare le due realtà in modo originale: conservare la metafora creando un senso di familiarità per il pubblico, ma aggiungere sempre dettagli inconsueti. L’immagine che ho proposto non era né lo pterodattilo né il drago, ma l’aquila. La Banshee ha assunto caratteristiche di animali con il dono del volo note a tutti: ha le membrane alari degli pterosauri, gli artigli a uncino del pipistrello, gli occhi vigili e l’estremità allargata dell’aquila. Ma il meccanismo della mandibola è simile a quello del barracuda, i colori ricordano quelli della rana velenosa dell’Amazzonia e i denti sono mobili come nella vipera. E le narici, situate all’ingresso della gabbia toracica come la presa d’aria di un caccia, non hanno uguali sulla Terra: lo spettatore deve sempre ricordare che si trova su un pianeta alieno.

Il caso di Avatar è quindi particolarmente interessante perché ci mostra un universo di cui è stato creato solo l’essenziale, seppure fin nei minimi dettagli (si dice che Cameron volesse vedere i manuali d’uso delle astronavi usate che compaiono nei film) da un team vasto ed eterogeneo di creativi: dai linguisti agli ingegneri agli antropologi agli zoologi, passando ovviamente per i disegnatori. Un mondo e un modo di operare insomma estremamente diverso da quello di Tolkien.

Ora, se ti piace il modo di lavorare di Cameron e hai messo via qualche soldino, puoi rompere il salvadanaio e cercare di creare un universo tutto tuo seguendo le nostre istruzioni.


Leggi anche: Guida pratica alla costruzione di universi – Parte IV

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Disegni: Federica Moro

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Carlo Rigon
Di formazione umanistica, ha conseguito il Master in Comunicazione della scienza presso la SISSA di Trieste. Insegnante, si occupa con scarso successo e poca costanza di tante cose. Tra i suoi progetti più riusciti un "museo del dinosauro giocattolo", ora chiuso.