STRANIMONDI

Guida pratica alla costruzione di universi – parte VIII

Mondi fatti di sabbia e vermi giganti, universi verso cui fuggire

Arrakis, il mondo in cui è ambientato il ciclo di Dune, merita per varie ragioni un posto privilegiato nella nostra guida su come si costruiscono gli universi: anzitutto la curiosità verso di esso è rinata grazie al recente film di Villeneuve. In secondo luogo è un universo che ha avuto una fortissima influenza sull’estetica della fantascienza successiva: le idee di pianeti desertici o di una tecnologia fatta anche di rottami e di pezzi di recupero saranno riprese da Starwars; i vermi delle sabbie creeranno un nuovo standard nelle mostruosità della fantascienza (ispirando tra gli altri, gli ohmu di Myazaki). Ma il motivo per noi più importante è che Herbert è il primo creatore di universi a parlare in modo esplicito e sistematico della disciplina del world building.

Lo fa in una serie di conferenze, intitolate significativamente How to create a world, i cui contenuti sono sintetizzati nella prefazione a Messia di Dune, il secondo romanzo (di sei) della saga.

La prima e forse più importante lezione che ci dà Herbert è che la costruzione di un mondo non è mai un processo lineare. Un mondo costruito completamente a tavolino (senza avere per esempio un’idea narrativa, seppur vaga) rischia di apparire sterile e artefatto. Nel costruire un mondo “si incontrano diramazioni affascinanti ed è difficile non cedere al desiderio di esplorarle”. Herbert sembra essere consapevole che un mondo non può essere disegnato nella sua compiutezza, che non può diventare un sistema onnicomprensivo e omni-coerente: di un mondo uno scrittore approfondirà certi aspetti, alcuni fino al dettaglio più insignificante, altri li tralascerà o li lascerà inevitabilmente in sospeso. Costruire un mondo non significa, almeno per molti narratori, compilare uno schedario riempiendo tutti gli spazi bianchi: Nei vuoti di conoscenza (che abbiamo anche nel nostro mondo) opera la fantasia del lettore o di chi decide di usufruire in modo creativo di quel mondo (un giocatore di ruolo o uno scrittore di fan fiction, per fare un paio di esempi).

Proprio come accade per Tolkien, il mondo di Dune nasce da un’interesse personale e professionale. Se la terra di mezzo viene partorita dalla passione per le lingue di Tolkien, Dune nasce dalla passione per i deserti e dal lavoro di giornalista di Herbert. Nel 1957, infatti, l’autore voleva scrivere un articolo – che in realtà non porterà mai a termine – sulle dune di Florence (Oregon), una sorta di laboratorio naturale per lo studio di rimedi contro la desertificazione. Le dune di Florence, enormi e mobili, in grado di ingoiare città, affascinarono il giornalista, allora quarantenne, che iniziò ad approfondire le sue conoscenze sui deserti, sulle popolazioni che li abitano, sulla loro cultura. Herbert si interessò a berberi, arabi, tuareg e alle loro tecniche e pratiche (non solo fisiche, ma anche sociali e religiose) usate e affinate nel corso dei millenni per vivere in un ambiente ostile come il deserto.

Lo scrittore riprese e trasformò (a dire il vero in alcuni casi in modo nemmeno troppo spinto) alcuni tratti dei popoli del deserto, per creare i Fremen, gli abitanti del pianeta Dune. Oltre a studiare lingue, costumi, modi di pensare (molti modi di dire Fremen sono calchi di proverbi arabi) di questi popoli si concentrò soprattutto su un tratto: la capacità di sopravvivenza. E la possibilità di sopravvivenza di un popolo tradizionale è data dalla sua capacità di inserirsi in un ciclo naturale (cosa drammaticamente impossibile, in molti casi, al giorno d’oggi). Una delle prime cose che fece Herbert perciò fu costruire un ciclo naturale, assolutamente visionario e affascinante, in cui i Fremen potessero inserirsi e, anzi, che consentisse ai Fremen – popolo primitivo e altrimenti destinato ad essere schiacciato da civiltà tecnologiche più avanzate – di diventare una popolazione cruciale nel proprio universo.

I Fremen sono infatti l’unico popolo in grado di sopravvivere nel pianeta desertico di Arrakis e di estrarre la spezia, prodotto di scarto del ciclo vitale degli enormi vermi della sabbia ed elemento più prezioso dell’universo. I Fremen sono abituati da sempre a vivere in simbiosi con gli enormi, voracissimi e pericolosissimi pseudo-anellidi. La pericolosità dei vermi della sabbia e l’impossibilità di farli vivere in cattività, magari su altri pianeti, è in effetti alla base della loro sopravvivenza. E come tutti i popoli del deserto, anche i Fremen hanno imparato a spremere tutte le risorse possibili dai pochi animali disponibili (qui sulla Terra abbiamo dromedari e cammelli, su Dune abbiamo i vermi della sabbia), tanto è vero che i vermi della sabbia vengono sfruttati dai Fremen anche come rapidissimo mezzo di trasporto, soprattutto per veicoli militari e come strumento sociale: infatti cavalcarne uno è la prova di iniziazione per eccellenza per i giovani Fremen.

Catturare animali che non esistono

È bene spendere due parole su come si catturi e cavalchi un verme della sabbia perché è un ottimo esempio di come approfondire un aspetto, un dettaglio, doni al mondo in costruzione credibilità, autenticità e fornisca al tempo stesso numerosi spunti creativi.

Per catturare un verme della sabbia i Fremen procedono così: si usa un martellatore (oggetto percussore che crea un suono ritmico, da cui i vermi sono attratti) per farne avvicinare uno, poi il Fremen lascia che il verme gli passi a breve distanza (questa è la parte più delicata, se il Fremen non calcola perfettamente la distanza può mancare il verme o esserne travolto) e aggancia uno dei segmenti della corazza del verme con uno speciale gancio detto “amo per creatori”. A questo punto si usa il gancio per sollevare un lembo della scaglia del verme esponendo la delicata pelle sottostante. Per evitare il contatto con la sabbia abrasiva, il verme istintivamente ruota su sé stesso portando la parte esposta verso l’alto, trascinando così il suo cavaliere sul “dorso”. Finché il cavaliere mantiene sollevatala scaglia con il gancio, il verme rimarrà in superficie, inoltre sollevando altri lembi lungo la circonferenza del verme è possibile farlo ruotare, guidandone la direzione. A questo punto altri Fremen possono agganciarsi al verme con la stessa tecnica e viaggiare su di esso; possono “pilotare” l’animale sollevando altri segmenti di corazza o colpendogli la coda per aumentare la velocità.

Se può sembrarci molto fantasiosa la cattura di un verme di sabbia, è interessante notare che l’invenzione di strane tecniche di cattura di animali inesistenti è attestata fin dall’antichità. Leggiamo cosa scrive il Physiologus (testo redatto probabilmente in ambito alessandrino tra il II e III secolo d.C., uno dei capostipiti dei cosiddetti bestiari medievali): “L’unicorno ha questa natura: è un piccolo animale, simile al capretto, ma ferocissimo. Non po’ avvicinarglisi il cacciatore a causa della sua forza straordinaria; ha un solo corno in mezzo alla testa. E allora come gli si dà la caccia? Espongono davanti ad esso una vergine immacolata e l’animale balza nel seno della vergine, ed essa lo allatta, e lo conduce al palazzo del re. L’unicorno è un’immagine del Salvatore: infatti «ha suscitato un corno nella casa di Davide padre nostro» (Luca 1,69) ed è divenuto per noi corno di salvezza. Non hanno potuto aver dominio su di lui gli angeli e le potenze, ma ha preso dimora nel ventre della vera e immacolata Vergine Maria, «e il verbo si è fatto carne, e ha preso dimora fra di noi» (Giov 1.14)”.

La cattura di un unicorno rappresentata in una miniatura del XIII secolo. (Wikimedia Commons)

È importante sottolineare che nel medioevo i bestiari erano ritenuti testi “scientifici” (per usare un anacronismo) assolutamente attendibili. Similmente all’unicorno, anche la Pantera è un’immagine di Cristo sulla Terra, dato che attira a sé con il profumo che esce dalla sua bocca gli animali che più le piacciono (cioè i fedeli) e dopo esserseli mangiati, riposa per tre giorni (come Gesù dopo la crocifissione); il serpente, simbolo del male la fugge. Anche la balena quando apre la bocca emette un profumo ammaliante, ma riesce a mangiare solo i pesci piccoli, mentre quelli grandi non le finiscono in bocca. La balena, per questo e altri motivi su cui soprassediamo, è perciò l’immagine del diavolo, che attira a sé gli stolti e gli eretici ma non riesce a conquistare l’uomo saggio. La lucertola solare, che vive solo in oriente, è invece l’immagine di ciò che dovrebbe essere l’uomo: quando invecchia le si offusca la vista e diviene cieca. “Cosa fa allora in virtù della sua bella natura? Cerca un muro a oriente e penetra in una crepa del muro: e quando sorge il sole, le si aprono gli occhi e le ridiventano sani. Allo stesso modo anche tu, uomo, se porti l’abito dell’uomo vecchio e gli occhi del tuo cuore sono offuscati, cerca il Sole nascente della giustizia Cristo Dio nostro”.

Per l’uomo del Medioevo la realtà terrena è un simbolo, una fotocopia sbiadita di una realtà trascendente, superiore e perfetta: significa qualcosa al di là della terra. Una domanda per noi senza senso, come “cosa significa una pantera?” o “cosa significa una lucertola solare?” (ammesso e non concesso che sappiamo raffigurarcela), aveva perfettamente senso per l’uomo medievale.

Vocabolari e fughe dal nostro universo

In genere un bell’insegnamento per l’aspirante world builder è che mondi molto lontani ed esotici li possiamo trovare anche relativamente vicino a noi, nel tempo e nello spazio: i bestiari sono un esempio lampante di quanto diverso fosse il modo di ragionare dell’uomo del medioevo. A tal proposito è interessante come Herbert si dichiari, sempre nell’introduzione al Messia di Dune, un appassionato lettore di vocabolari, in particolare di quelli etimologici (speriamo che li leggesse almeno a salti). Riscoprire la vera origine delle parole (e perciò delle cose?), andare a fondo, alla radice dei termini e accorgersi con stupore di come molto spesso essi derivino da idee, concetti, lontanissimi dal loro significato comune e attuale è per Herbert uno strumento creativo assolutamente importante. Per altri usi creativi di un vocabolario si veda qui.

Come dicevamo, un universo non nasce in modo lineare: in Dune c’è anche una notevole, forse non sempre conscia, trasfigurazione della nostra realtà e della nostra storia. Il parallelismo tra i popoli dei nostri deserti e i Fremen non si limita alla cultura: molti critici hanno voluto vedere nei vermi della sabbia una metafora, una trasfigurazione delle tubature del petrolio che solcano i deserti: come i tubi, infatti, anche i vermi sono portatori di una sostanza organica ambitissima dagli altri popoli, che vengono da fuori e che se la possono permettere (ricordiamo che il ciclo di Dune è stato scritto sulle soglie della crisi petrolifera degli anni ‘70).

Sicuramente sull’idea che assumendo la spezia si possa entrare in contatto con gli antenati o addirittura viaggiare a velocità superluminali distorcendo lo spazio e il tempo ha influito anche la cultura psichedelica degli anni ‘60. E, per certi versi, Herbert è l’anticipatore anche di alcuni elementi del cyberpunk: anche gli hackers dal Neuromante di Gibson a Nirvana di Salvatores a Matrix raggiungono con la mente (e una tastiera) altre dimensioni , solo apparentemente virtuali: nel cyber spazio possono compiere azioni che avranno importanti ripercussioni o rischiare la vita.

Certo, la soluzione prospettata da Herbert per distorcere lo spazio-tempo (da sempre un pallino della fantascienza ma anche della fisica) è particolarmente originale, almeno per la nostra cultura. Vale la pena forse accennare a chi se ne è occupato in termini scientifici seppure assolutamente speculativi, come il cosmologo Michio Kaku (oltre che scienziato, divulgatore scientifico di una certa fama oltre oceano).

Kaku sostiene che le distorsioni spazio temporali potrebbero avere utilizzi diversi da quelli ricreativi (a chi non piacerebbe viaggiare all’epoca dei dinosauri?) o conoscitivi: creare delle discontinuità nello spazio tempo infatti potrebbe essere uno dei pochi modi per garantirci, in un futuro molto lontano, la sopravvivenza: se l’universo (come sembra) è destinato a espandersi all’infinito e se la sua entropia per la seconda legge della termodinamica è destinata a crescere, arriverà un momento in cui non ci saranno possibilità di vita nell’universo. Tutte le stelle collasseranno, e passeremo dall’universo delle stelle a quello dei buchi neri. Anche i buchi neri lentamente evaporeranno trasformando l’universo in un calmo mare di elettroni e fotoni che si muoveranno con pochissima energia. Questa fine dell’universo (chiamata Big freeze e alternativa all’altrettanto poco alettante Big crunch, cioè il collassamento dell’universo su se stesso) dovrebbe avvenire, secondo i calcoli di Kaku, tra 10117 anni, un periodo di tempo piuttosto lungo, come si potrà immaginare, in cui possono succedere tante cose. E in cui, forse, civiltà tecnologiche molto progredite (la nostra, una derivata, una derivata dalla derivata) potrebbero trovare il modo di fuggire da questo universo verso uno più giovane.

Kaku, nel suo libro “ Mondi paralleli. Un viaggio attraverso la creazione, le dimensioni superiori e il futuro del cosmo, formula alcune ipotesi su come fuggire:

1)La via di fuga più classica è quella del buco nero. I buchi neri sono piuttosto abbondanti nel nostro universo e in linea teorica dovrebbero mettere in comunicazione universi diversi o parti diverse dello spazio-tempo dello stesso universo. Per la maggior parte dei fisici però, un viaggio attraverso un buco nero dovrebbe rivelarsi fatale. Civiltà che avessero capito meglio il funzionamento dei buchi neri e fossero in effetti in grado di utilizzarli, potrebbero crearne alcuni. Einstein cercò di dimostrare che un insieme di particelle rotanti attorno a un centro comune non riuscirebbe mai a trasformarsi in un buco nero, per quanto veloce ruoti e per quanta massa abbia. Però iniettando gradualmente altra energia e altra materia nel sistema in rotazione, teoricamente, potremmo far nascere un buco nero in maniera controllata. Se riuscissimo a riunire assieme varie stelle di neutroni e le facessimo ruotare , la gravità farebbe raggiungere al sistema un punto prossimo alla creazione di un buco nero. A questo punto, iniettando altre stelle di neutroni nel sistema, potremmo costruire un buco nero che ruoti alla velocità desiderata (in base alla quantità di materia che ci aggiungiamo). Successivamente ci si potrebbe buttare dentro il buco nero con un’astronave, sperando che tutto vada bene e ben sapendo che dal buco nero non si può fare ritorno (ma d’altra parte questa è una cosa che non ci interessa, se il nostro universo si sta congelando). Le radiazioni all’interno del buco nero dovrebbero essere elevatissime, perciò sarebbe necessario studiare dei sistemi di schermatura adeguati per evitare di morire arrostiti. Inoltre il buco nero potrebbe perdere stabilità mentre viene attraversato dalla materia (la sua stabilità è vincolata da condizioni molto restrittive) e quindi un viaggio attraverso di esso è da ritenersi molto difficile e pericoloso, sebbene allo stato attuale delle nostre conoscenze non sia possibile escluderne la fattibilità.

2)Un altro modo per fuggire dal nostro universo sarebbe quello di crearne uno: gli universi si possono creare all’interno del “falso vuoto”, cioè una piccolissima regione dello spazio-tempo in cui nascono e si espandono come spaccature delle regioni di instabilità. Se riuscissimo a comprimere della materia fino a un volume inconcepibilmente piccolo, probabilmente potremmo creare una di queste regioni di instabilità, ad altissima densità e concentrazione di energia (ricalcando la situazione che ha preceduto il Big Bang). Anche in questo caso però avremmo bisogno di passare attraverso un buco nero per raggiungere il nuovo universo.

3)Anche se riuscissimo a riscaldare una porzione di spazio fino a farle raggiungere i 1029 K e poi la lasciassimo raffreddare rapidamente potremmo ottenere una regione di falso vuoto. A temperature così elevate infatti si ritiene che lo spazio-tempo diventi instabile. In questa regione potrebbero quindi formarsi dei baby-universi: la maggior parte di essi scomparirebbero istantaneamente, mentre altri potrebbero acquisire una consistenza materiale. Un’idea per ottenere temperature e densità così elevate è usare laser e fasci di particelle potentissimi su una ristretta quantità di materia. Non riusciremmo però a vedere il babyuniverso, almeno nelle sue fasi iniziali di creazione: si espanderà infatti al di fuori del nostro universo e si espanderà, grazie a forze antigravitazionali che lo terranno lontano dal nostro, in una sorta di iperspazio. Rimarremmo però collegati a esso tramite un buco nero

Ma lasciamo le ipotesi di Kaku e ripiombiamo per un attimo su Arrakis: molti hanno voluto leggere Dune come una storia ecologista e come un monito profetico all’umanità: sono gli anni in cui si affaccia, forse per la prima volta, il problema della sostenibilità ambientale e si iniziano a intuire i danni dell’inquinamento; uno dei primi libri a parlarne, probabilmente, è “la primavera silenziosa”, del 1962, tre anni prima dell’uscita di Dune. Forse (ri)leggere la saga di Herbert a cinquant’anni dalla sua pubblicazione potrebbe farci bene per capire quanto (poco?) sia cambiato il nostro atteggiamento riguardo alle problematiche ambientali.

Secondo Michio Kaku un buon metodo per costruire un universo nuovo verso cui fuggire è quello di creare forti sbalzi termici: vediamo come si fa. Prendi una piccola porzione di spazio (fig.1) e scaldala fino a farle raggiungere i 1000000000000000000000000000000 °K (fig.2). Lasciala raffreddare velocemente (fig.3). All’interno della porzione di spazio scaldata e raffreddata rapidamente lo spazio tempo dovrebbe essere ora instabile (fig.4) Si dovrebbero perciò formare molti baby universi (fig.5) I baby universi sopravvissuti dovrebbero staccarsi rapidamente dal nostro, rimanendone attaccati solo grazie a un buco nero (fig.6 ).


Leggi anche: Guida pratica alla costruzione di universi – Parte VII

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Disegni: Federica Moro

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Carlo Rigon
Di formazione umanistica, ha conseguito il Master in Comunicazione della scienza presso la SISSA di Trieste. Insegnante, si occupa con scarso successo e poca costanza di tante cose. Tra i suoi progetti più riusciti un "museo del dinosauro giocattolo", ora chiuso.