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Il cuore della pandemia

Purtroppo in Italia il dibattito pubblico, sui media in particolare, continua ostinato a guardarsi l’ombelico. Gli sforzi di quelle che qualcuno ha definito “le migliori menti del paese” si continuano a concentrare intorno ai grandi concetti di Libertà e Democrazia applicati a una piccola cosa quale è il Green Pass. Sempre le “migliori menti” esultano, oppure no, quando qualche altro paese si accinge a implementare una nuova misura di contenimento, per garantirsi un plauso.

È come trovarsi entro un recinto di cavalli che trottano: un dibattito limitato da rigidi paraocchi. Forse, forse, uno specchietto per le allodole. Dopo quasi due anni, la questione centrale rispetto alla possibilità di uscire dall’emergenza è l’equità nell’accesso ai vaccini. Ogni decisione politica, come introdurre forme di contingentamento simili al nostro Green Pass, dipende direttamente dalla capacità dei paesi più poveri di vaccinare gran parte della popolazione al più presto. Altrimenti la libertà che tanti “van cercando” a gran voce, non potrà che essere limitata ai nostri scarni confini geografici, bene che vada.

La reale questione morale, se vogliamo, è dunque piuttosto quanto sia giusto dirottare le dosi di vaccino ai paesi più ricchi per la dose Booster, come stiamo facendo in Italia, oppure coordinarsi per ridurre la disomogeneità di offerta nel mondo.

Il 40% di vaccinati nel mondo entro fine dicembre. Utopia

Questo è un obiettivo che il mondo sta fallendo. A sole sette settimane dalla fine dell’anno, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha chiesto agli Stati membri di istituire immediatamente un gruppo di lavoro di alto livello, per raggiungere l’obiettivo di vaccinare il 40% della popolazione mondiale contro il COVID19 entro il 31 dicembre e il 70% entro la metà del prossimo anno. Il problema è che circa 80 paesi del mondo, metà dei quali in Africa, avranno enormi difficoltà a raggiungere questo obiettivo. Abbiamo bisogno di ulteriori 550 milioni di dosi entro la fine dell’anno, ha affermato il Direttore Generale Tedros Adhanom Ghebreyesus.

Una nuova analisi dell’OMS, raccontata su The Lancet Respiratory Medicine, ha concluso che la stragrande maggioranza dei casi di COVID-19 in Africa non viene ancora rilevata. Al 10 ottobre 2021, l’Africa aveva registrato circa 8,4 milioni di infezioni da SARS-CoV-2 e 217.000 decessi, ma l’OMS ha calcolato che il numero reale di infezioni è verosimilmente sette volte superiore. La stessa analisi ha mostrato che due decessi su tre per COVID-19 non vengono registrati in Africa.

L’obiettivo fissato per la fine di settembre 2021 era di vaccinare il 10% della popolazione di ogni paese, ma 56 paesi non sono stati in grado di raggiungere questo obiettivo, e la maggior parte di loro sono in Africa. Solo il 6% degli africani è stato completamente vaccinato contro il COVID-19. Sebbene la fornitura di vaccini al continente sia accelerata negli ultimi mesi, non è ancora ottimale e l’OMS stessa ha avvertito che nel 2022 potrebbe verificarsi nel continente una carenza di siringhe.

COVAX, che rappresenta lo sforzo maggiore che abbiamo fatto verso una storta di equità nell’accesso ai vaccini, al momento non ha portato i risultati sperati. Questo non è un problema di approvvigionamento; è un problema di allocazione.” L’OMS prevede che solo cinque nazioni africane riusciranno a vaccinare completamente il 40% della loro popolazione entro la fine del 2021. Solo una di queste nazioni, la Mauritania, si trova in Africa subsahariana. Anche se i vaccini sono disponibili, consegnarli non è sempre semplice. Diversi paesi lottano per mantenere le catene del freddo. Ci sono stati problemi con l’esitazione del vaccino e segnalazioni di vaccini donati che sono vicini alla scadenza. Per non parlare della scarsità di tamponi. Un nuovo programma dell’OMS ha come obiettivo raggiungere più di 7 milioni di africani in otto paesi nel corso del prossimo anno, fra cui Burundi, Repubblica Democratica del Congo e Senegal. Alle famiglie entro un raggio di 100 metri da un individuo risultato positivo al SARS-CoV-2 verranno offerti test diagnostici rapidi e coloro che hanno contratto il COVID-19 riceveranno cure a domicilio o presso centri di cura designati, a seconda della gravità della malattia. La cosa importante è che i tentativi emergenziali non restino lontani da una concreta e strutturale presa in mano della situazione da parte delle istituzioni sanitarie locali. Un tema importante dei progetti non strutturali è per esempio la comunicabilità dei dati: come far dialogare database diversi non comunicanti?

Un nuovo trattato mondiale

L’OMS ha organizzato una sessione straordinaria dell’Assemblea mondiale della sanità che inizierà il 29 novembre, con l’obiettivo di prendere delle decisioni su come rafforzare l’Organizzazione mondiale della sanità tra i suoi Stati membri. Una sorta di “trattato pandemico” che stabilirebbe una nuova architettura globale per affrontare future epidemie per evitare gli errori del covid-19. Obiettivi decisamente imponenti e che si scontrano con la strutturale difficoltà di mettere d’accordo i grandi della Terra, come stanno mostrando gli scarni risultati di COP26 a Glasgow.

Proprio dal momento che anche da vaccinati ci si può contagiare nuovamente di nuove varianti, specie le persone più fragili, che possono comunque finire in ospedale, seppur in percentuale molto minore (vedi anche l’ultimo rapporto ISS, molto esplicito) non possiamo mettere la testa sotto terra e non porci la domanda di come ridurre al minimo il rischio di contagio. Ridurre, non azzerare. Nel frattempo l’unica cosa che possiamo realisticamente fare, oltre a vaccinarci il più possibile, è capire se e quanto funzionano le misure di contenimento simili al nostro Green Pass, sperando che non emergano varianti più feroci di quelle attuali.

Come la misuro l’immunità di gregge?

Giusto per chiarire, due cose cruciali: primo, il 40% non è un obiettivo che permetterà di metterci a riparo, ma solo un primo step. Secondo, non stiamo andando verso l’immunità di gregge, banalmente perché non esiste al momento una soglia tale per cui i vaccinati sono sufficienti per garantire lo stop della circolazione del virus e quindi la sicurezza di chi non è vaccinato.

L’ideale sarebbe confrontare in uno studio chiuso l’efficacia vaccinale in gruppi più o meno vaccinati, ma che hanno messo in pratica le medesime misure di prevenzione del contagio (stesso uso della mascherina, stessa igiene, ecc), ma nel mondo reale ciò non è possibile. Detto questo, i dati che possediamo mostrano chiaramente che non è che più si vaccina più in proporzione diminuiscono i casi. Non ancora. Incrociando i dati (nei database OMS Europa) sull’andamento percentuale di nuovi casi e decessi negli ultimi 7 giorni e la percentuale di popolazione completamente vaccinata, per paese, emerge che non c’è una correlazione diretta fra alte percentuali di vaccinati e decrescita del numero di contagi: i paesi con le coperture vaccinali più alte, fra cui il nostro paese, non sono quelli che stanno mostrando l’andamento migliore in termini di nuovi casi. Questo ci dice fondamentalmente una cosa: che chi è vaccinato ha meno probabilità di prendere il virus e di ammalarsi gravemente, ma soprattutto ci dice che siamo ancora ben lontani dalla tanto agognata (e forse fantasticata) immunità di gregge, che fa sì che oltre una certa soglia i vaccinati siano sufficienti per ridurre l’impatto del patogeno anche su chi non è vaccinato.

Il vaccino, non solo ma anche

Nei giorni scorsi l’OMS ha pubblicato il quarto aggiornamento delle Key planning recommendations for mass gatherings in the context of COVID-19, cioè delle raccomandazioni su come gestire gli eventi di massa, che includono due nuovi box: screening tramite tampone, prima di partecipare a eventi di massa e Vaccinazione e partecipazione a eventi pubblici.

In sintesi, OMS attualmente non raccomanda il tampone appena prima degli eventi pubblici, per esempio un rapido all’entrata, come misura migliore per evitare i contagi, nemmeno nei gruppi di popolazione a bassa trasmissione. Questo perché le cariche virali, e quindi la probabilità di test positivi, sono più alti negli individui infetti 2-3 giorni prima della comparsa dei sintomi e durante i primi 5-7 giorni di malattia. Un metodo di screening alternativo raccomandato dall’OMS nel quadro di un approccio basato sul rischio applicato a il viaggio internazionale nel contesto di COVID-19 è quello di schermare visivamente i potenziali partecipanti che presentano tosse e respirazione difficoltosa). Questo metodo può essere considerato per raduni di massa e implementati nei punti di ingresso della sede dell’evento.

Riguardo alla vaccinazione come prerequisito, si legge che “questa misura è giustificata per mitigare gli esiti negativi dell’infezione da SARSCoV-2 (inclusi malattia, ospedalizzazione e morte), ma non deve essere considerata una prova assoluta di protezione dalla trasmissione passiva o prevenzione di trasmissione attiva. Gli individui vaccinati dovrebbero continuare ad esercitare tutte le misure precauzionali raccomandate dall’OMS per ridurre il rischio di trasmissione: igiene, mascherina e distanziamento.”


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Immagine: Pixabay

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Cristina Da Rold
Giornalista freelance e consulente nell'ambito della comunicazione digitale. Soprattutto in rete e soprattutto data-driven. Lavoro per la maggior parte su temi legati a salute, sanità, epidemiologia con particolare attenzione ai determinanti sociali della salute, alla prevenzione e al mancato accesso alle cure. Dal 2015 sono consulente social media per l'Ufficio italiano dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.