CERVELLI ARTIFICIALI

L’algoritmo indossa il camice e ti legge la radiografia

L'intelligenza artificiale arriva negli ospedali e affianca gli specialisti della diagnostica per immagini. Esploriamo questo nuovo mondo, tra grandi potenzialità e limiti tecnici e burocratici.

I software di intelligenza artificiale stanno imparando a leggere le radiografie. Possono capire se un osso è rotto, monitorare i progressi di un paziente dopo un’operazione o dire quale sia la natura di una polmonite. 

Da un punto di vista informatico, siamo nel campo del riconoscimento delle immagini, un ambito in cui negli ultimi tempi gli scienziati hanno ottenuto risultati sorprendenti. Il funzionamento è quello tipico degli algoritmi di AI, che, vedendo moltissimi esempi di immagini con il relativo significato, imparano poi a interpretare in autonomia nuove radiografie.

In radiologia, per esempio, si può allenare l’algoritmo con le immagini mediche unite ai referti scritti da radiologi.  

“Se ne parla dagli anni ‘90, ma fino a poco tempo fa l’idea di far leggere una radiografia a un programma automatico rimaneva confinata nel mondo della ricerca di base. Adesso sta diventando uno strumento sempre più concreto”, esordisce Luca Maria Sconfienza, professore ordinario di Diagnostica per immagini e radioterapia presso l’Università degli Studi di Milano e Direttore dell’Unità Operativa di Radiologia del IRCCS Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano.

Tempo guadagnato

Affiancare un algoritmo a degli operatori in carne e ossa ha un grande vantaggio: fa guadagnare tempo. “Pensiamo a tutte quelle situazioni in cui il radiologo non è presente, magari perché non è di guardia in quel momento. In quel caso il clinico potrebbe ricevere dal sistema un aiuto prezioso, e prendere una prima decisione su come procedere senza attendere l’arrivo dello specialista”, spiega Sconfienza.

Oppure si potrebbero delegare al software i compiti più semplici e ripetitivi: “In ambito ortopedico spesso si devono fare misurazioni a partire dalle immagini. Servono parametri come l’angolo di una frattura o la distanza tra un osso e l’altro. Queste operazioni, che non sono difficili, portano via tanto tempo al professionista”. Inoltre, spesso le misure devono essere ripetute a distanza di tempo, per esempio per valutare i progressi. Per questo affidarsi a un algoritmo farebbe risparmiare molto tempo.

Un altro ambito dove l’intelligenza artificiale si può rivelare utile è la gestione delle liste di attesa: “In ricerca esistono sistemi in grado di interpretare il quesito clinico con cui un certo esame viene richiesto e assegnare una priorità”, prosegue Sconfienza. 

Se il software ti assegna il posto

In questo momento, a gestire le liste di attesa sono operatori amministrativi, che, anche qualora un software facesse il suo ingresso in ospedale, rimarrebbero a supervisionarne l’operato.

Perché a questo punto viene spontaneo chiedersi: se il programma sbagliasse ad assegnare la priorità ad un paziente, magari sottovalutando un’urgenza, chi sarebbe il responsabile di eventuali complicazioni dovute al ritardo? “Se i sistemi di intelligenza artificiale fanno ancora fatica a entrare a pieno ritmo nella pratica ospedaliera è anche per queste questioni, che devono essere valutate attentamente. Tuttavia, l’importante in questi casi è capire se il tasso di errore umano è maggiore o minore di quello della macchina. E, al momento, gli studi dicono che la macchina sbaglia allo stesso modo o meno rispetto agli operatori”.

Come in qualsiasi campo dove l’AI si sta affermando, questo non significa che la macchina sostituirà l’uomo. “Piuttosto lo aiuterà a svolgere dei compiti ben precisi”, puntualizza Sconfienza.

Preciso, ma troppo focalizzato

Anche perché siamo ben lontani dal poter paragonare l’intelligenza delle persone con quella delle macchine. “Con i software è difficile generalizzare. Prendiamo il caso delle radiografie polmonari: lo scorso anno, all’inizio della pandemia, abbiamo studiato un algoritmo che funzionava alla grande sulle immagini radiologiche di una banca dati cinese, riuscendo a individuare i casi di Covid. Poi però non riusciva a capire gli esami che venivano  fatti nel nostro ospedale”. Si trattava di un mero problema tecnico legato a standard differenti di esecuzione. “Un medico avrebbe subito capito il problema, invece il sistema, allenato su immagini solo all’apparenza molto diverse, non riusciva a uscire dall’impasse”.

Inoltre, per ora gli algoritmi riescono a portare a termine un solo compito. Così può succedere che un programma riconosca al volo una frattura ma non si accorga di un problema che coinvolge i tessuti vicini, anche quando sarebbe ben evidente per un occhio umano anche poco allenato.

A che punto siamo, in pratica

Oltre a quanto detto, quello che al momento frena la diffusione capillare di queste tecnologie, più che i  limiti tecnici, sono le questioni burocratiche.

“Alcune soluzioni cominciano a uscire dai laboratori di ricerca per essere commercializzate. Uno dei più grandi ostacoli che incontrano in questo passaggio è quello regolatorio”. La legge assimila i cervelloni elettronici a dispositivi medici a tutti gli effetti. Devono quindi passare per un percorso di certificazione, che è lungo, complesso e costoso.

“Qualche tempo fa c’era tanto fermento intorno a queste tecnologie, si credeva che sarebbero esplose da un momento all’altro. I tempi sono stati più lunghi del previsto, ma ormai ci siamo: nei prossimi 10 anni prevedo un aumento dell’interazione tra uomo e macchina, anche negli ospedali”, conclude Sconfienza.


Leggi anche: Spostare l’intelligenza artificiale dal cervello al corpo

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Viola Bachini
Mi occupo di comunicazione della scienza e della tecnologia. Scrivo su giornali e riviste, collaboro con case editrici di libri scolastici e con istituti di ricerca per la comunicazione dei risultati al grande pubblico. Ho fatto parte del team che ha realizzato il documentario "Demal Te Niew", finanziato da un grant dello European Journalism Centre e pubblicato in italiano sull'Espresso (2016) e in spagnolo su El Pais (2017). Sono autrice del libro "Fake people - Storie di social bot e bugiardi digitali" (Codice - 2020).