Un post della giornalista Jen Doll pubblicato su The Atlantic Wire ha invece posto l’accento su un cambiamento in corso, o meglio una tendenza: il trasferimento nella lingua scritta di parole definite “stampella”, ossia intercalari che inseriamo nelle conversazioni, presenti in ogni lingua nelle forme colloquiali.
Per immergerci nelle questioni della linguistica, così difficili da cogliere nella loro lentezza e gradualità, abbiamo intervistato Valeria Della Valle, docente di Linguistica italiana alla “Sapienza”, Università di Roma, e autrice di grammatiche e libri di divulgazione sulla lingua italiana, tra cui Viva il congiuntivo scritto a quattro mani con Giuseppe Patota ed edito da Sperling & Kupfer.
Valeria Della Valle, come distinguiamo il cambiamento dall’errore?
Non li distinguiamo. I cambiamenti in ogni lingua, e in quella italiana nel nostro caso, sono così lenti e vengono accettati con taledifficoltà che spesso ciò che dopo decenni viene considerato corretto, inizialmente veniva visto come errore. Le faccio un esempio: per tutto l’ottocento i grammatici segnalavano come unica forma legittima dell’imperfetto indicativo dei verbi della prima coniugazione la terminazione in – ava, quindi “io amava”. All’epoca quindi “io amavo” era considerato un errore, mentre noi oggi non ci sogneremmo di mettere in discussione questa forma. Scrittori e poeti dell’epoca seguirono questa indicazione, anche quando nel parlato era ormai diffusa la forma che conosciamo ancora oggi. Il punto di svolta si ebbe quando Manzoni iniziò a usare la terminazione in –avo nella forma scritta: Manzoni è stato quindi un innovatore, e dopo il suo esempio anche le persone colte hanno iniziato a utilizzare la forma in –avo, che era anche la forma più diffusa nel parlato. In realtà il processo di accettazione della forma in –avo è stato lento e le grammatiche hanno continuato per lungo tempo a insistere sulla correttezza e l’obbligo di utilizzo di una forma caduta in disuso da tempo.
Come avviene il passaggio da un uso colloquiale a una forma riconosciuta dalla grammatica?
La forma scritta segna solitamente il passaggio da una forma grammaticale colloquiale a una forma riconosciuta, convalidata da esempi illustri e gloriosi come il già citato Manzoni. Il cambiamento non avviene comunque grazie a un caso singolo e a un utilizzo isolato, ma anche nella forma il processo prosegue per gradi: nel caso dei verbi citato prima, dopo Manzoni è stato comunque necessario che la forma in –avo venisse diffusa anche da altri scrittori. Ed esistono anche esempi contrari. Studiando i discorsi del ministro Quintino Sella ho potuto osservare l’uso della variante antica in –ava, esempio evidente delle difficoltà che incontra ogni nuova forma grammaticale nel tentativo di essere riconosciuta come corretta. Basti pensare, per tornare a tempi più recenti, al pronome personale soggetto “egli”, “ella”. Quando andavo a scuola io, nelle nostre grammatiche era obbligatorio utilizzare “egli” ed “ella” e non “lui” e “lei”. Oggi nessun linguista potrebbe più dire che “lui” e “lei” siano errori, eppure non solo sono stati considerati tali fino agli anni ’60 sia nel parlato sia nello scritto, ma recentemente uno studente universitario si è scusato con me all’esame per aver utilizzato “lui” anziché “egli”.