Lo hanno spiegato Mary Scholes e Bob Scholes della Wits University, autori di un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science. Il tasso di produttività di molti terreni si è infatti drammaticamente ridotto come conseguenza dell’abuso delle tecnologie moderne utilizzate per l’agricoltura intensiva, come l’uso non sostenibile di fertilizzanti, l’irrigazione e il dissodamento intensivi. Queste pratiche ormai molto diffuse contribuiscono anche, sul lungo termine, a distruggere i batteri che convertono la materia organica in nutrienti, e ogni anno circa l’1% del terreno del nostro pianeta viene degradato, mentre in Africa l’erosione ha già ridotto i raccolti dell’8%.
La fertilità del suolo, sottolineano i ricercatori, non è solamente una proprietà biofisica, ma anche sociale. Si tratta di un elemento fondamentale per la produzione di cibo, fin dai tempi più antichi quando i terreni infertili erano definiti stanchi, malati, o freddi. Qual era la soluzione? Ci si spostava a coltivare altrove, fino a quando non si fossero ripresi. Eppure già a metà del ventesimo secolo era possibile analizzare suoli e vegetazione nel dettaglio, per capire quali fossero le mancanze in termini di nutrimento e condizioni ambientali; a quel punto, a risolvere il problema dei “suoli stanchi” interveniva l’azienda agrochimica, facendo diventare una matrice inerte per coltivare in qualcosa da annaffiare costantemente con una zuppa di nutrienti: una zuppa fin troppo concentrata.
Un approccio intensivo, che ha portato a un aumento senza precedenti nella produzione di cibo, ma ha anche contribuito al riscaldamento globale, all’inquinamento delle falde acquifere e dei corsi d’acqua, nonché alla progressiva distruzione degli ecosistemi costieri. Le attività associate all’agricoltura, infatti, sono responsabili di un terzo dei gas serra emessi dal nostro pianeta, e metà di questi arrivano direttamente dal suolo. Cosa fare dunque? Come spiegano gli autori, non è di un approccio organico all’agricoltura che abbiamo bisogno ora, anche perché richiederebbe aree coltivabili molto più ampie che non abbiamo, e non sarebbe risolutivo per contrastare le modifiche climatiche, salvaguardare la biodiversità o purificare le acque contaminate. Possiamo invece avvicinarci il più possibile al ciclo naturale degli ecosistemi, accostando ai loro ritmi spontanei le nuove frontiere di ricerca delle biotecnologie e i fertilizzanti di tipo inorganico. Solo così riusciremo, un giorno, a raggiungere l’agognato traguardo di una sicurezza ambientale e anche alimentare.
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