I pesci, perfetti organismi modello per gli studi etologici
I primi due esperimenti condotti per testare i principi della selezione naturale di Darwin sono stati effettuati sui pesci negli anni Trenta. Ora potremmo riavvicinarci a quella linea di ricerca
RICERCA – I pesci sono da sempre degli organismi modello per lo studio del comportamento animale, fin dalle prime ricerche effettuate negli anni Trenta del secolo scorso. L’etologia nasce infatti lentamente prima della Seconda Guerra mondiale, ma è dopo il conflitto che si comincia a studiare il comportamento animale in chiave adattativa.
Il comportamento è prodotto della selezione naturale o da quella sessuale, quando coinvolge la riproduzione. Una storia lunga settant’anni, ma che trae il suo fondamento principale ne L’origine delle specie di Darwin, pubblicato nel 1859. “Storicamente, i due primi esperimenti che sono stati fatti per testare i principi della selezione naturale, così come Darwin l’aveva descritta, sono stati effettuati sui pesci negli anni Trenta. Anche la competizione spermatica -che deriva dall’accoppiamento multiplo delle femmine- è stata descritto ufficialmente e per la prima volta in un pesce, la Poecilia reticolata. I pesci sono sempre stati protagonisti degli studi etologici, fin dagli albori di questa disciplina”, chiarisce a OggiScienza Andrea Pilastro, Professore Ordinario di Zoologia all’Università degli Studi di Padova.
Dei tre padri dell’etologia, premiati anche col Premio Nobel, Konrad Lorenz si dedicò allo studio degli uccelli, Karl Von Frisch alle api e Nikolaas Tinbergen tradusse invece l’idea generale di Darwin, fondando lo studio adattativo del comportamento. “Tutto lo studio evolutivo era applicato a caratteri morfologici, ma il comportamento è più difficile da descrivere e misurare, richiede degli accorgimenti più specifici. Non tutti gli animali si comportano allo stesso modo, proprio come gli individui all’interno di una stessa specie. Tinbergen ha effettuato molte ricerche sui pesci, animali che ben si prestano agli studi sul comportamento perché sono facilmente osservabili. Paradossalmente, conosciamo molto meglio il comportamento dei pesci rispetto a quello dei mammiferi, che sono prettamente notturni e comunicano attraverso segnali chimici, sfruttando il canale olfattivo che risulta difficile da studiare”, prosegue Pilastro.
“Noi studiamo con più semplicità i suoni e i segnali visivi, siamo quindi più facilitati nello studio del comportamento di un animale diurno e che utilizzi segnali visivi e sonori. Un altro vantaggio nell’uso dei pesci come organismi modello per l’etologia è che possono essere facilmente portati in laboratorio e un acquario costituisce un’imitazione molto buona dell’ambiente naturale in cui vivono. Il pesce si muove nell’acquario proprio come farebbe nel proprio ambiente naturale e questo risulta fondamentale”.
Ma in Italia la tradizione etologica è generalmente scarsa, si parla poco di comportamento animale, si tende a concentrarsi su altri settori delle scienze. “Non siamo un Paese con una grande tradizione naturalistica. In Inghilterra fa parte della cultura delle persone conoscere il nome degli uccelli e dei pesci più comuni. In Italia, se non si è un pescatore o non si hanno particolari passioni, si ignorano i nomi delle specie più diffuse. Qui abbiamo un bias verso altri tipi di disciplina, come la medicina o la fisica”.
Personalità vs gruppo?
“Lo studio della personalità è una delle aree più recenti nell’etologia dei pesci. Proprio per la difficoltà di studiare il comportamento animale, la scienza ha finora descritto valori medi, tralasciando le differenze di comportamento che sono invece molto importanti per la biologia evoluzionistica. Se per esempio descriviamo come si comporta in media uno sgombro, perdiamo molta di questa informazione. Nonostante questo, sono vent’anni che si osserva una differenza tra i caratteri degli individui in varie specie di pesci, che ricalcano dei pattern simili a quelli osservati nell’uomo. Ci sono individui più baldanzosi e meno accurati nell’esplorazione, altri più timidi ma sistematici nella perlustrazione dei fondali”.
In questo senso, è particolarmente significativa una ricerca pubblicata su Science, che ha messo in luce la predominanza delle dinamiche di gruppo su quelle individuali, soprattutto quando si deve prendere una decisione legata a un pericolo imminente. Lo studio chiarisce che il gruppo tende a smorzare la personalità del singolo, appiattendo le differenze comportamentali esistenti tra gli individui.
“Questo deriva dal fatto che questi gruppi vengono creati come strategia difensiva antipredatore. La principale strategia difensiva dei pesci che vivono in ambiente aperto e in acqua libera è quella di sfruttare il gruppo: se il gruppo è composto da mille individui, il singolo avrà una possibilità su 1000 di essere predato, c’è quindi una notevole diluizione del rischio di predazione. Se un pesce capta la presenza di un predatore tende a fare gruppo, quindi da movimenti solitari gli individui si raggruppano o se già si muovono in piccoli gruppi tendono a costituirne di più grandi”, spiega Pilastro. “È chiaro che questo deriva dalla necessità che il gruppo ha di essere coeso in questa precisa circostanza. Più è compatto il gruppo nel suo movimento, più è efficace la difesa. L’elemento fondamentale diventa la sincronizzazione del movimento, c’è un vantaggio notevole nel comportarsi allo stesso modo”.
Il futuro della ricerca
Nei prossimi anni la ricerca sarà in grado di descrivere e comprendere maggiormente i movimenti dei grandi pesci oceanici, come i pesci pelagici. Di questi animali oggi si sa poco, ancora meno del loro comportamento. Le difficoltà sono legate al fatto che sono dispersi in un ambiente molto vasto: grazie a una serie di nuove tecnologie miniaturizzate, in futuro potremo studiarne il comportamento come già si fa per gli squali balena o i cetacei. “Sarà presto possibile effettuare questi studi su un grande numero di individui, i prezzi delle tecnologie stanno calando. Il processo di miniaturizzazione permetterà di prendere in considerazione pesci ritenuti, fino a poco tempo fa, di taglia troppo piccola”.
Un’altra direttrice di studi che si sta affermando nell’etologia dei pesci è ben rappresentata da una ricerca pioniera nel suo genere e pubblicata su Scientific Report, che ha dimostrato come un aumento delle concentrazioni di anidride carbonica sia in grado di alterare la chimica del cervello dell’animale, fattore che può causare danni neurologici permanenti. Nell’esperimento descritto, i ricercatori si sono concentrati sull’alterazione del comportamento della castagnola spinosa (Acanthochromis polyacanthus), un pesce che vive comunemente sulle barriere coralline del Pacifico occidentale.
I pesci sono stati divisi in due gruppi: i primi erano esposti a un livello di anidride carbonica normale, i secondi alla quantità di diossido di carbonio che si prevede ci sarà fra 300 anni. Come avevano previsto i ricercatori nella propria ipotesi, i pesci del gruppo di controllo -esposti a un livello maggiore di CO2- hanno dimostrato comportamenti anomali, scegliendo di dirigersi verso la porzione di acquario che conteneva un segnale chimico di allarme (analogo a quello emesso da un pesce della loro specie ferito), invece che verso quell’area dove l’acqua non risultava alterata. È la prima volta che le misurazioni fisiologiche permettono di collegare un’anomalia nella chimica del cervello a un comportamento alterato nei pesci della barriera corallina.
“Questi sono studi importanti, perché è evidente che le condizioni globali stanno cambiando: parametri come la concentrazione di anidride carbonica nell’aria e la crescente acidificazione degli oceani condizionano necessariamente la vita degli animali marini dell’ecosistema”, spiega Pilastro. “Chiaramente queste condizioni non sono favorevoli, ma non conosciamo il potenziale evolutivo di queste popolazioni: fra 300 generazioni, se la popolazione della specie sarà grande come nella ricerca considerata [la castagnola spinosa è un pesce comune, con un ciclo di vita breve, di un anno circa] alcuni degli individui avranno senz’altro del potenziale evolutivo”.
Grazie alla selezione, quindi, parte della popolazione potrà adattarsi ai cambiamenti in atto. “Nella maggioranza degli studi che vengono effettuati ora, si cercano di chiarire gli effetti della situazione futura sulle popolazioni attuali, ma sappiamo ancora poco o nulla su quali o in che misura le popolazioni attuali saranno in grado di rispondere a questi cambiamenti globali adattandosi all’ambiente, com’è sempre avvenuto sulla Terra. L’evoluzione, del resto, produce specie adattate, così come ha fatto negli ultimi quattro milioni di anni”, prosegue l’esperto. “La differenza oggi è data dal fatto che l’aumento di anidride carbonica e il riscaldamento globale stanno inducendo cambiamenti molto più veloci rispetto a un tempo, a un ritmo mai visto prima. L’uomo ha defaunizzato il pianeta: si parla di specie in via di estinzione, ma l’estinzione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Per il numero già enorme di specie già estinte, ce ne sono molte che sono in forte calo per quantità di individui rimasti: si ritiene che la biomassa animale si sia ridotta almeno del 10% rispetto all’inizio della Rivoluzione industriale. Il che abbatte le possibilità di una popolazione di elaborare risposte al cambiamento ambientale”, conclude Pilastro.
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