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M49: la dimensione umana del problema

Il dibattito innescato dalla fuga dell’orso M49 mette in evidenza l’importanza della dimensione umana nella gestione faunistica. Ne abbiamo parlato con Piero Genovesi di Ispra e Simone Stefani della LAV

Raramente le interazioni problematiche con la fauna selvatica riguardano un conflitto diretto tra la nostra specie e le altre. Più spesso, raccontano di umani che discutono con altri umani. Il caso dell’orso M49-Papillon ha messo bene in luce questo punto. Lo ha fatto con l’esplosione di commenti che è seguita alla sua fuga. Le dichiarazioni di enti pubblici statali e locali, ministri, associazioni di rappresentanza, partiti politici, uffici amministrativi, animalisti, forestali, sono un assaggio della complessa galassia di valori, interessi e competenze che ruota attorno alla gestione faunistica. Lo ha fatto ricordandoci quanto culturale sia la conservazione della fauna selvatica e mettendo in discussione aspetti centrali del comune pensare gli orsi.

In questo articolo intendo chiarire alcuni dei principali nodi di dibattito. Ricostruirli ha richiesto d’intrecciare racconti diversi. Alcuni sono frutto di interviste dirette, altri di rapporti ufficiali, articoli di giornale e comunicati stampa. Un ricamo complesso, che vede affiancati ricercatori e cittadini.

Le voci virgolettate sono di Piero Genovesi, responsabile della fauna selvatica per l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), e di Simone Stefani, rappresentante della Lega Anti Vivisezione (LAV) per il Trentino.

Il giorno in cui Papillon è diventato pericoloso

17 giugno 2019, ore 22. Raheem Yunus si trova all’esterno della malga Arnò in Val Breguzzo. È il pastore. A un tratto sente dei rumori provenire dall’interno della struttura. Si avvicina a una delle finestre per controllare e, in quell’attimo, dalle ombre, emerge M49. Tra i due c’è meno di un metro di distanza. Spaventato, Raheem indietreggia, cerca di fuggire, finisce per terra. L’orso esce, esita un istante, quindi si allontana.

L’importanza di questo episodio non sta nell’essere il casus belli che ha convinto la Provincia Autonoma di Trento a emettere un’ordinanza di cattura, ma nel suo chiamare in causa il primo grande tema di discussione: la qualifica di orso problematico dannoso e pericoloso. Per capire perché è necessaria una premessa.

Animale inquieto, animale vivace

«Noi di Ispra abbiamo un tavolo permanente con la Provincia Autonoma di Trento e il Ministero dell’Ambiente, in quanto siamo chiamati a valutare i rischi legati ai comportamenti di tutti gli orsi. Perciò, anche se a distanza, riceviamo costantemente aggiornamenti su cosa fa M49». A parlare è Piero Genovesi, responsabile della fauna selvatica per l’Ispra.
«Senza dubbio si tratta di un orso di grandissima vitalità, con comportamenti a volte davvero sorprendenti. Per esempio, la sua sistematica abitudine a entrare in malghe o rifugi non utilizzati dagli uomini è qualcosa di unico nel panorama degli orsi delle Alpi Centrali».

L’Ispra non è l’unica a ritenere unici gli atteggiamenti di M49. Il Gruppo Grandi Carnivori della Provincia di Trento, nel Rapporto annuale sulla convivenza con orsi, lupi e linci, ha infatti dedicato a M49 un paragrafo a sé. Un privilegio non concesso agli altri membri della popolazione trentina di plantigradi, che si stima essere tra gli 80 e i 90 esemplari.
D’altronde, solamente nel 2019, M49 si è reso responsabile di 44 episodi di danno (infrastrutture danneggiate, arnie distrutte, capi da allevamento uccisi o feriti), per un totale di 45.000€ indennizzati: il 30% della somma complessiva rimborsata per danni da orso.

Non basta. È stato anche protagonista di molti eventi potenzialmente pericolosi per l’incolumità umana. Nello specifico, di “7 intrusioni in edifici di abitazione o malghe…, di ulteriori 12 tentativi di intrusione… non riusciti per la robustezza degli infissi e di un’interazione diretta uomo-orso…” (p. 42): l’episodio di Arnò.

La definizione secondo i cittadini interessati

Basta tutto questo a definire M49 un orso problematico dannoso o pericoloso? Per la Coldiretti non ci sono dubbi: la risposta è sì. Un orso che non ha paura di entrare in strutture utilizzate dagli esseri umani è problematico, perché le danneggia e perché, prima o poi, il pastore o il turista ritornano. Arnò docet.

Non tutti, però, sono d’accordo. Raggiunto al telefono, Simone Stefani, responsabile della LAV Trentino, mi dice: «Non è possibile bollare come dannoso un orso che, in un anno, magari, fa solo 30.000 euro di danno, e chiedere per questo misure d’emergenza. Intanto sarebbe da conteggiare anche l’indotto che ha la presenza degli orsi. Penso solo per il turismo!».

Stefani incalza: «Qui da noi, tra maggio e ottobre, in montagna si lavora il formaggio. Spesso, però, quando finisce la stagione, le malghe vengono lasciate praticamente aperte. L’orso sente odori che gli interessano e si abitua a frequentarle. Poi, a maggio dell’anno dopo, ci si lamenta perché ci sono “criticità” dovute a una coincidenza di presenza…».

Per la LAV, problematiche simili sorgono anche quando si guarda ai sistemi di prevenzione. «Se andiamo a vedere dove avvengono gli episodi di predazione di animali allevati, troviamo che, in molte occasioni, o non vengono usate reti di protezione o, se ci sono, non sono montate bene, perché chi lavora in montagna non sa come impiantarle al meglio».

Anche sulla pericolosità Stefani ha un punto di vista differente. «Non è problematico l’orso. Sono problematici i nostri comportamenti. Altro esempio? La gran parte degli incontri ravvicinati con feriti hanno riguardato mamme con i piccoli. Ora la Provincia ha realizzato una mappa dove segnala, grosso modo, la presenza di queste orse. La mappa c’è, quanti sanno che esiste o la usano?».

Di personalità e interventi ad hoc

Giudicare i comportamenti di M49 è stata un’operazione complessa anche per chi di orsi s’interessa da una vita. «Per noi dell’Ispra è stato molto difficile valutarlo». La prima ragione è che, quando si parla di plantigradi, la personalità individuale non è un aspetto secondario. «Non tutti gli orsi sono uguali: ogni individuo ha un suo carattere. È un aspetto che il sistema di gestione della popolazione deve tenere in considerazione sempre: bisogna conoscere i comportamenti dei singoli per tarare le misure d’intervento» poiché quello che funziona per uno potrebbe non essere sufficiente con un altro esemplare.

Perciò, se in linea generale gli orsi tendono a essere elusivi e a evitare il disturbo antropico, frequentando territori poco battuti dalla nostra specie o muovendosi in orari in cui noi tendiamo a non mostrarci (la notte, per esempio), non dovremmo stupirci se, di tanto in tanto, compare qualche individuo più curioso o vivace. «Questi animali possono adottare comportamenti per noi problematici». È una questione già nota.

Il secondo motivo è che, sebbene M49 sia «un orso estremamente attivo, non ha mai dato segni di particolare aggressività». Per chi si occupa di conservazione e ripopolamento degli orsi da decenni, questa ambiguità è difficile da governare.
Da un lato c’è la consapevolezza che captivazione e abbattimento sono misure emergenziali che andrebbero attivate solo in casi realmente eccezionali. Questo per l’impatto che hanno sulla vita del singolo animale e perché, su popolazioni contenute e con bassi tassi di riproduzione, la perdita di un solo esemplare comporta un danno elevatissimo.

Dall’altro, «La sfida per tutte le amministrazioni coinvolte dalla presenza di orsi sul territorio è trovare una formula per assicurare una coesistenza pacifica tra questi animali e noi umani. Un po’ perché è importante permettere a chi abita nelle Alpi di continuare a svolgere le loro attività normali; un po’ perché, dove non si è stati in grado di garantire la coesistenza, a pagarne le conseguenze è sempre stato l’orso».

La confidenza come origine dei problemi

«La principale origine dei conflitti è la confidenza». A spiegare il perché è ancora il dottor Genovesi. «È quando gli orsi imparano ad avvicinarsi agli umani che succedono guai. Per questo è fondamentale cercare in tutti i modi di evitare che ci siano fonti facili di cibo in prossimità della presenza umana».

A tal proposito, la Provincia Autonoma di Trento porta avanti progetti per installare cassonetti a prova di orso e sistemi di protezione per il bestiame all’alpeggio. Misure che, come le reti di protezione, sono concesse in comodato gratuito oppure coperte al 90% da fondi statali ed europei, oltre che locali.

«Se, anche così, gli orsi assumono comportamenti confidenti, si possono attuare una serie di misure di dissuasione volte a rievocare nel singolo animale la sua naturale tendenza ad evitarci. Ad esempio, si possono dotare di radiocollare, così da monitorarli meglio e intervenire rapidamente se necessario, spaventandoli con vari sistemi. Questo tenendo fermo che la misura essenziale rimane informare le persone sui comportamenti corretti da tenere, in primis evitare di avvicinarsi agli animali o di garantire loro qualsiasi disponibilità di cibo».

Secondo il Rapporto Grandi Carnivori, nei confronti di M49 sono stati effettuati 16 interventi di dissuasione con pallottole di gomma, dardi esplodenti, cani anti-orso e squadre di intervento specifiche, di cui una impegnata a seguirlo negli spostamenti, la seconda dedicata a un presidio fisso del territorio. Come abbiamo visto, però, la personalità del singolo orso conta: “Tutti i tentativi di condizionamento e dissuasione non hanno sortito alcun effetto sul [suo] comportamento” (p. 42).

L’orso è pericoloso?

Questo ci pone di fronte a un secondo problema: l’orso è o non è pericoloso? «Ecco, io credo che danneggi gli stessi orsi questa visione dicotomica tra chi pensa che gli orsi rappresentino sempre un pericolo — cosa che non è assolutamente vera; tantissime popolazioni del mondo convivono con questi animali senza particolari tipi di problemi — e chi vede l’orso come un peluche che mai, in nessun caso, può rappresentare un pericolo».

La prima regola della comunicazione del rischio è mai negarli. Ecco perché, per Genovesi, il continuo sbilanciamento tra orso sempre pericoloso e mai pericoloso è scorretto: non dà la giusta percezione del fenomeno.

«L’orso non è un peluche. È un animale selvatico. Non aggressivo di natura, non pericoloso per noi, con il quale si può tranquillamente coesistere ma che, comunque, in alcuni casi particolari, può creare condizioni di pericolo. Una visione dicotomica invece rischia di impedire, a chi poi deve prendere delle decisioni effettive, di analizzare correttamente i dati».

Soprattutto, non fornisce ai cittadini gli strumenti e i sistemi di prevenzione che il mondo della ricerca ha da tempo sviluppato per ridurre al minimo le situazioni critiche o per uscirne in maniera posata e controllata.

Per Genovesi, però, la valutazione finale sulla pericolosità di un animale dovrebbe essere tecnica, non politica né mediatica. Questo perché va calibrata sugli effettivi comportamenti dell’orso, sul suo carattere, sugli interventi dissuasivi o di prevenzione che si possono fare, sulla preziosità del soggetto ai fini della conservazione della popolazione. «I rischi per gli umani dipendono sì dagli atteggiamenti dell’animale, ma anche dal contesto».

Di percezione e abitudini

Il terzo nodo di discussione riguarda cosa stiamo facendo. Il Trentino-Alto Adige rimborsa i danni da grandi carnivori al 100% e in tempi ragionevoli, ha squadre di dissuasione attive 24h su 24h e si fa carico di buona parte dei lavori di prevenzione. La percezione, però, è che questo impegno non sia sufficiente.

Scrive la Coldiretti, in riferimento a tutti i grandi carnivori: “Negli ultimi anni si è reso così necessario un continuo vigilare su greggi e mandrie, al fine di proteggerle dagli attacchi poiché recinzioni e cani pastore spesso non sono sufficienti per scongiurare il pericolo. Agli animali uccisi si aggiungono – precisa la Coldiretti – peraltro i danni indotti dallo spavento e dallo stato di stress provocato dagli assalti, con ridotta produzione di latte e aborti nei capi sopravvissuti”.

È un problema che anche il Gruppo Grandi Carnivori ha rilevato, tant’è che nell’ultimo rapporto specifica come le necessarie modifiche strutturali delle malghe e il lavoro aggiuntivo per gestire i sistemi di protezione siano — molto più dei costi — il reale limite alla realizzazione degli interventi.
A tal proposito, la Provincia sta cercando di rendere le proprie valutazioni ancor più dettagliate e puntuali, valutando i costi di mantenimento (oltre a quelli di installazione), le differenti aree di rischio e il grado d’impegno e di lavoro aggiuntivo richiesto.

La ricetta della convivenza

«Perché ci sia convivenza» racconta Genovesi «occorre un sistema di misure che vanno dalla prevenzione dei danni, alla loro rapida compensazione, alla limitazione delle origini stesse dei conflitti, all’informazione dei cittadini». Ciò che la Provincia Autonoma di Trento sta cercando di realizzare.

«Si può sempre fare di più e di meglio, ma sarebbe importante ricordarsi che il progetto di reintroduzione e gestione degli orsi in Trentino è forse uno dei più avanzati mai realizzati al mondo. Più in generale, a livello di coesistenza la situazione italiana è decisamente meno problematica di tante altre. Anche in paesi molto vicini al nostro il tasso di bracconaggio sull’orso è elevatissimo: ad esempio, quasi tutti i cuccioli nati o arrivati in Austria negli ultimi decenni sono stati abbattuti illegalmente. Questo perché non si è riusciti a trovare una formula realmente efficace di convivenza. Da noi questo problema è pressoché inesistente».

La percezione culturale

Secondo la LAV, la resistenza ai cambiamenti dipende da un fattore culturale e di formazione. «Nei progetti di conservazione dell’orso, è sempre stata trascurata la parte d’informazione e formazione delle persone e di chi lavora in montagna. Se, agli inizi del progetto di ripopolamento, si fosse partiti con una formazione seria nelle scuole, oggi avremmo ragazzi di 30-35 anni — guarda caso quelli che vivono i boschi — ben educati alla prassi da tenere per stare in montagna. Invece non si è riusciti a far capire quanto, la presenza di orsi, rappresenti una risorsa per tutti».

Nel Rapporto Grandi Carnivori le attività di comunicazione per il grande pubblico e quelle di formazione per stakeholder specifici sono segnalate: indizio che la parte comunicativa è riconosciuta — o quantomeno si è incominciato a considerarla — un tassello fondamentale dei progetti. Ma alla base delle difficoltà c’è una questione culturale: convivere richiede accettare la presenza di un animale nel proprio universo, riadattando abitudini e spazi in funzione anche delle sue esigenze.

«È certamente un sacrificio» commenta Simone Stefani. «Che però tanti altri settori dell’economia e della società hanno dovuto fare, nel corso del tempo, per esigenze ambientali. No?».

Il destino del fuggitivo

«L’iter normale per rimuovere un orso prevede un’autorizzazione da parte del Ministero dell’Ambiente e un parere Ispra obbligatorio, anche se non vincolante. Ora, nel sistema di ruoli e competenze italiano, qualora ci siano condizioni di necessità e urgenza, cioè nel caso di un pericolo immediato per la sicurezza pubblica, le amministrazioni provinciali o regionali possono intervenire con ordinanze che non passano per Ispra e il Ministero. Poi sta alle Corti valutare se questa decisione è legittima o meno» chiarisce Genovesi. Inoltre, una legge della Provincia Autonoma di Trento recentemente approvata permette di decidere una rimozione anche senza l’autorizzazione del Ministero Ambiente, esclusivamente sulla base di un parere dell’ISPRA.

Il destino di M49, dunque, dipende dalle scelte che farà il Presidente della Provincia Autonoma di Trento. Che fino ad oggi si è sempre espresso a favore di una captivazione permanente dell’orso.

La scelta del Centro faunistico di Casteler come struttura di confinamento è dovuta al fatto che in Italia e in Europa non esistono strutture in grado di garantire condizioni migliori, posto che «Qualunque struttura metta degli animali selvatici in cattività non potrà mai offrire condizioni ideali per questi animali». Soprattutto nel caso degli orsi, abituati a muoversi su territori estesi.

Casteler offre uno spazio chiuso al pubblico, con buona copertura di bosco, tane artificiali e vasche per rinfrescarsi. Un solo operatore interagisce con gli ospiti, limitando l’esposizione agli esseri umani che, spesso e volentieri, è causa di forte stress per la fauna selvatica. In ogni caso — e Genovesi lo ribadisce più volte — la cattività permanente «dovrebbe essere una misura estrema».

Nell’incertezza che avvolge il suo futuro, una cosa è sicura: il Papillon, di cui M49 porta il nome, Henri Charrière, criminale divenuto famoso negli anni Settanta per le sue numerose e rocambolesche evasioni dal carcere, alla fine ha ottenuto la grazia. Ci sono voluti più di nove tentativi di fuga. M49, per ora, è a due.


Leggi anche: Zecche: i rischi del morso e cosa fare per rimuoverle

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Elisa Baioni
Laureata in Scienze Filosofiche all'Università di Bologna. Frequenta il Master in Comunicazione della Scienza 'Franco Prattico' di Trieste. Ha scritto per Galileonet; per Rickdeckardnet e per Animal Studies. Collabora con le scuole per attività di didattica formale e informale. Appassionata di scienza, etiche ambientali e postumanesimo. Preoccupata per il brutto clima.