Mappare il cervello. Realtà o fantasia?
Geni, plasticità, assi neurocognitivi. Cosa ci dobbiamo aspettare dalla ricerca? Intervista ad Alessandro Treves
Si può mappare un territorio e associargli una fascia climatica specifica, si può mappare lo spazio astronomico osservabile e stabilire la temperatura, la pressione e la quantità di ossigeno. Mappare il cervello assegnando specifiche funzioni a determinate aree è al contrario un compito estremamente complesso e spesso infruttuoso. In passato diversi studiosi si sono lanciati nell’impresa, con ipotesi più o meno fantasiose e con esiti per la gran parte scarsi. L’esempio più emblematico (per non dire divertente) è forse quello del medico tedesco Gall, il quale a inizio ottocento sostenne che ogni funzione mentale ha origine in una determinata porzione di cervello. Tale porzione, e quindi la corrispondente funzione, sarebbe più o meno sviluppata a seconda della particolare morfologia della scatola cranica.
Oggi le neuroscienze hanno superato questi paradigmi, cosiddetti localizzazionisti. Tuttavia è pur vero che le funzioni cognitive emergono dal substrato cerebrale e che, in seguito a lesioni, determinate capacità possano risultare compromesse. Qualche legame specifico tra le due dimensioni deve quindi esistere.
Due assi neurocognitivi
Recentemente un team internazionale di ricercatori, provenienti dal Max Planck Institute, dal Forschungszentrum Juelich, dal Center for the Developing Brain e da altri istituti, hanno pubblicato su Science Advances uno studio che mostra la presenza di due assi neurocognitivi attorno ai quali le regioni cerebrali sarebbero geneticamente organizzate. Il primo asse unisce l’area posteriore del cervello con quella frontale e rifletterebbe il percorso che procede dalle abilità di base, come la percezione visiva, fino ad arrivare (nelle aree frontali) alle competenze tipicamente umane come la cognizione sociale e l’astrazione. Il secondo asse unisce la parte superiore del cervello a quella inferiore. La prima sarebbe responsabile degli aspetti motivazionali e di attribuzione di significato, la seconda si occuperebbe di percezione spaziale, temporale e del movimento. Secondo gli studiosi questa organizzazione rifletterebbe un percorso evolutivo, in quanto una simile dinamica è stata osservata anche in primati non umani. Per capire il livello di determinazione genetica, i ricercatori hanno analizzato il cervello di gemelli omozigoti, eterozigoti e di persone non imparentate.
Geni e plasticità cerebrale
Per chiarire meglio le dinamiche che esistono tra substrato cerebrale e capacità cognitive, abbiamo chiesto un approfondimento ad Alessandro Treves, professore di neuroscienze cognitive alla Sissa di Trieste. Ci siamo chiesti: cosa unisce effettivamente -neuro a -cognitivo? È un legame specifico e diretto, determinato per la gran parte dai geni, o è un fenomeno più complesso?
Intanto bisogna sottolineare che noi possiamo associare specifiche funzioni a determinate aree “entro certi limiti”, chiarisce il professore. “Ci sono delle funzioni di default. Ad esempio c’è una zona della corteccia, la Visual Word Form Area, al confine tra lobo occipitale e temporale, che si trova solo nell’emisfero sinistro e che è deputata alla rappresentazione mentale di una parola scritta a partire dall’input visivo delle singole lettere. Tuttavia tra i pazienti che presentavano una lesione in questa area, ce ne erano alcuni in cui questa capacità era stata trasferita nella porzione esattamente speculare dell’emisfero destro. È interessante notare che nonostante la funzione avesse cambiato il substrato cerebrale, tale cambiamento non era avvenuto in una zona qualsiasi della corteccia, bensì nel punto di corrispondenza esatta dell’altro emisfero, dove la connettività è molto simile”.
Questa capacità del cervello di riorganizzarsi in seguito e lesioni, ma anche in seguito a pressioni ambientali, è chiamata plasticità cerebrale ed è una caratteristica importantissima. Tuttavia, come sottolinea lo studio sopracitato e come rimarca Treves, il cervello non è totalmente malleabile, deve rispettare i vincoli che provengono dai geni. A parere del professore, tali vincoli rappresentano “istruzioni molto generali”. “Ad esempio fanno sì che la corteccia visiva, in tutti i mammiferi che hanno più o meno la stessa organizzazione cerebrale, sia localizzata in una certa parte del cervello, come accade anche per altre aree come la corteccia frontale, etc.”.
Quantità o qualità?
Finora abbiamo parlato quasi solo di umani. La plasticità cerebrale è stata un fenomeno molto incisivo per l’evoluzione del Sapiens, ci ha permesso di sviluppare abilità cognitive e comportamentali estremamente flessibili che hanno contribuito al successo della nostra specie. È possibile immaginare che per gli animali non umani la componente genetica nell’organizzazione cerebrale assuma un grado di influenza maggiore e che il cervello sia in qualche maniera più rigido?
“Non credo. Dal punto di vista dell’organizzazione cerebrale e del grado di plasticità l’essere umano è un mammifero come tutti gli altri. La differenziazione tra il nostro cervello e quello degli altri animali, anche se c’è un dibattito in corso, è di tipo quantitativo, relativamente al numero di neuroni e al numero di connessioni neurali. In realtà ci sono alcuni anatomisti che hanno dedicato la loro vita ad analizzare le proprietà delle aree responsabili delle abilità più tipicamente umane, come il linguaggio. Una lesione in queste aree, al contrario di quelle cui facevamo riferimento prima, solitamente non produce un trasferimento della competenza in un’altra zona del cervello, con conseguente perdita della capacità stessa. Purtroppo il risultato di decenni di ricerche di questo tipo è lo zero assoluto.” In sostanza non è emerso nulla di qualitativamente diverso in queste aree rispetto a quelle degli altri animali. La differenza, rimarca Treves, è quantitativa. Specifiche aree nel Sapiens sono più numerose e più grandi. “L’approccio che ha più possibilità di essere corretto è pensare che un aumento quantitativo di un ignoto parametro porti a una differenza qualitativa nelle funzioni della corteccia. Come l’acqua che quando la temperatura scende sotto lo zero diventa ghiaccio”.
Fare ricerca tra sfide e ostacoli
Le tecniche che consentono di osservare l’attività cerebrale, ovvero l’Imaging, hanno permesso alle neuroscienze degli ultimi decenni di progredire in maniera formidabile. A oggi “rappresenta un’industria vivace e fiorente – commenta Treves – in linea di principio sono studi molto utili, però tendono per loro natura a cercare un’area cerebrale responsabile di una certa abilità. Si rischia di tornare a modelli teorici ormai obsoleti”. Quindi riemerge, mutatis mutandis, il paradigma localizzazionista. “Negli ultimi anni c’è stato un certo cambiamento verso la produzione di risultati in termini di reti neurali più estese, però in generale l’Imaging tende a rispondere al quesito: dov’è che succede qualcosa?”. Inoltre, sul fronte applicativo e quindi anche di mercato: “l’Imaging è una macchina che va avanti anche senza pilota, c’è un’industria molto sviluppata che include tantissimi macchinari, personale tecnico, etc. Inoltre, una volta che si possiedono tutte queste risorse l’obiettivo è produrre il maggior numero di studi possibile. Molti di questi, purtroppo, si rivelano inutili”, conclude Treves.
Cosa auspica per il futuro delle neuroscienze cognitive? “Che emergano spazi per fare ricerca creativa individuale, che siano immunizzati dal sistema dei finanziamenti competitivi. Questo discorso può non valere per tutti, magari tanti si trovano a proprio agio in questa situazione. Ci sono molte questioni scientifiche che devono essere affrontate con un’organizzazione di tipo industriale. Per i problemi di frontiera però bisogna garantire maggiore libertà intellettuale, molte volte i risultati non emergono quando li stai cercando, ma quanto non te li aspetti”.
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