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L’origine delle macchie del leopardo

Con degli algoritmi matematici gli scienziati spiegano il legame fra il manto dei felini e l’ambiente in cui vivono

NOTIZIE – No, non sarebbe stato Dio a  dipingerle con un pennarello il giorno in cui ha deciso di creare gli animali. Pare proprio che le strisce della tigre e le macchie del leopardo siano il risultato dell’adattamento all’ambiente, e pur non essendo la prima ricreca a dimostrare il valore adattativo del manto irregolare dei felini, quella pubblicata pochi giorni fa sui Proceedings of the Royal Society B collega nel dettaglio  (usando algoritmi matematici) il disegno sul manto di più di 30 specie di felini selvatici con i loro habitat e abitudini.

Il risultato è che i felini che abitano in ambienti “densi” (le foreste per esempio) e sono attivi in condizioni di scarsa illuminazione sviluppano più facilmente un manto con disegni complessi e irregolari. Questo suggerisce che i motivi sul manto dell’animale abbiano una funzione mimetica. Secondo lo studio inoltre questi disegni possono apparire e sparire (nel corso delle generazioni) molto velocemente.

I risultati di Will Allen e colleghi dell’Università di Bristol, spiegano per esempio come mai i leopardi dal manto completamente nero sono comuni mentre per esempio fra i ghepardi questa caratteristica non si riscontra. I leopardi infatti vivono in ambienti molto diversi fra loro. Questa varietà di nicchie ecologiche fa sì che i colori atipici possano stabilizzarsi all’interno di particolari popolazioni. Questo non succede con i ghepardi che invece abitano più o meno tutti in ambienti molto simili.

Lo studio però ha evidenziato anche delle anomalie. Per esempio i già citati ghepardi pur preferendo ambienti aperti e illuminati hanno sviluppato un manto maculato, mentre altre specie di felini pur vivendo nella foresta hanno un manto omogeneo.

Solo poche specie infine hanno un manto a strisce verticali. Di quelle esaminate solo la tigre mostra questo tipo di disegno che non è associato a un ambiente fitto di piante erbacee, come verrebbe da pensare.

Il metodo usato potrebbe, a detta stessa degli autori, essere usato anche per altre specie animali.

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