La formulazione del modello a panettone del 1904 seguiva la scoperta, sette anni prima, dell’elettrone, sempre a opera di Thomson. Con quella scoperta si capì che la materia era formata di due parti: una negativa, gli elettroni appunto, e l’altra positiva. Come fosse però organizzata quest’ultima, restava ignoto: la scoperta del nucleo avvenne infatti successivamente all’ideazione del modello di Thomson. Quest’ultimo resistette fino al 1909, anno in cui, con l’esperimento di Geiger-Marsden diretto dal fisico neozelandese di nascita e britannico di adozione Ernest Rutherford (1871-1937), fu scoperta l’esistenza del nucleo atomico.
Lo scopo dell’esperimento era trovare prove a favore della teoria secondo cui gli atomi sono sfere permeabili neutre. Ci si aspettava che le particelle alfa, dotate di alta energia, non avessero problemi a sfrecciare attraversando qualche atomo: esse avrebbero dovuto semplicemente passare dritte attraverso la lamina d’oro e lasciare delle tracce in una piccola regione dello schermo posto dietro la lamina. In realtà, lo schermo mostrava tracce nella parte dietro la lamina ma, sorprendentemente, ne mostrava alcune anche nella parte di fronte alla lamina.
I risultati dell’esperimento del 1909 furono analizzati nei due anni successivi e, nel 1911, esattamente cent’anni fa, Rutherford pubblicò un articolo in cui formulava un nuovo modello, che prese il nome di “modello planetario”. Come nel modello planetario vero e proprio a cui si riferiva, infatti, anche quello atomico prevedeva una carica positiva centrale concentrata in un volume ridotto (il “Sole” del sistema) e, a distanze considerevoli, minuscole cariche negative che vi orbitavano intorno (come i pianeti orbitano intorno al Sole) seguendo traiettorie ben precise. Ecco perché ancora oggi l’atomo viene rappresentato secondo il modello di Rutherford, per esempio nella bandiera dell’AIEA.
Eppure, quel modello non vale più. O, per meglio dire, vale soltanto parzialmente. Già perché, se con il modello di Rutherford venivano risolte alcune delle questioni lasciate insolute dal “panettone” di Thomson, se ne aprivano altre, nuove. Per esempio, il modello planetario non andava per niente d’accordo con la teoria elettromagnetica della fisica classica: gli elettroni di Rutherford avrebbero dovuto emettere, orbitando attorno al nucleo, energia sotto forma di radiazione elettromagnetica, e di conseguenza spiraleggiare elegantemente fino a schiantarsi nel nucleo stesso. Ma ciò non accadeva. Fu soltanto con la meccanica quantistica, soprattutto con gli studi di Niels Bohr (1885-1962) prima, che di Rutherford era stato allievo, e con quelli di Werner Heisenberg (1901-1976) ed Erwin Schrödinger (1887-1961) poi, che si arrivò alla conclusione che non si poteva parlare di orbite né di traiettorie per gli elettroni, ma soltanto di probabilità di trovare un elettrone in un certo punto dello spazio.
Insomma, dal modello planetario sparivano non solo le orbite, ma anche gli elettroni intesi come oggetti identificabili singolarmente a un dato tempo e in un dato spazio. Gli elettroni formavano invece, secondo gli studi di inizio XX secolo, una nuvola che circondava il nucleo: un’entità, piuttosto che un insieme di unità. Ma la rappresentazione dell’atomo Rutherford è ormai entrata nella storia, e ci sono pochi dubbi sul fatto che neppure i prossimi centenari degli studi di Bohr e colleghi riusciranno a scalfire l’immagine a cerchi e sfere del suo modello.