Ayse Pinar e colleghi hanno analizzato le risonanze magnetiche di 20 volontari mentre osservavano dei video di esseri umani, androidi realistici e robot (dalle fattezze robotiche) che compievano alcune azioni. I soggetti (dai 20 ai 36 anni) sono stati scelti fra persone che non sono mai state in Giappone (e che non hanno amici o parenti giapponesi). Questo criterio apparentemente razzista è dovuto al fatto che in Giappone le persone sono molto più abituate a interagire con agenti robotici di quanto lo sia la maggioranza delle popolazione mondiale e il loro sisterma percettivo potrebbe aver imparato ad accettare le “differenze”.
Le differenze maggiori di attivazione cerebrale si sono avute nella condizione “androide realistico” nelle zone che connettono la parte della corteccia cerebrale visiva che processa i movimenti corporei con le parti della corteccia visiva che contengono i neuroni specchio. In pratica secondo i ricercatori quest’attività innalzata segnala una difficoltà nel processare l’incongruenza.
Quando il cervello si aspetta qualcosa e questo qualcosa non viene rispettato c’è una difficoltà. Questo significa che l’interazione con robot dall’aspetto robotico potrebbe essere più semplice che quella con robot molto simili all’essere umano, un fattore importante di cui tenere conto quando si vogliono introdurre (o vendere) robot a un pubblico umano.
Un test che evidenzi questo aspetto – per capire quanto è “gradito” il robot al pubblico – potrebbe dunque essere molto utile. La ricerca è pubblicata su Social Cognitive and Affective Neuroscience.