Come sottolineano gli scienziati nella lettera, è importante (seppur molto complicato) convincere i locali a rivolgersi ai medici per un’eventuale diagnosi, mentre gran parte delle persone colpite da malattie febbrili vengono ancora curate a casa. Gli stessi sistemi di monitoraggio e controllo impiegati sono a ora inadeguati, il che non stupisce visto che anche Medici Senza Frontiere ha dichiarato, con oltre 40 tonnellate di attrezzatura inviata in loco, di aver raggiunto la capacità d’azione delle proprie èquipe. Secondo gli esperti un primo provvedimento dovrebbe essere sfruttare gli smartphone per la raccolta di routine dei dati di sorveglianza, in modo da costituire un solido database. La mancanza di forze adeguate sul luogo, dai medici alle infermiere, si spiega in vari modi. Tra questi il fatto che, spiegano gli scienziati, il personale medico non ha accesso a un equipaggiamento protettivo adatto, motivo per il quale è comprensibilmente restio al contatto diretto (e dunque all’assistenza) con i malati, o con i sospetti infetti di Ebola.
Mentre l’OMS ha dichiarato che, assunto il rispetto delle basilari norme igieniche, non è ancora necessario limitare il commercio -spesso si tratta di bushmeat– e gli spostamenti transnazionali, gli autori della lettera riportano che i primi provvedimenti presi in merito non hanno comunque avuto alcun risultato. “Ciò che è certo”, scrivono, “è che queste politiche (e il modo in cui sono state comunicate) hanno aumentato l’ansia e, in alcune zone, incoraggiato voci di corridoio che hanno promosso comportamenti controproducenti”. Purtroppo le stesse autorità locali non sembrano avere chiara la portata dell’epidemia e la sua gravità; in quest’ottica, scrivono gli scienziati, è necessario che il personale medico instauri un dialogo concreto con i media e i leader delle comunità locali (oltre che con il pubblico), per frenare la disinformazioni e agire sul fronte della prevenzione e delle misure di controllo.
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