Per fortuna, oggi si sta diffondendo sempre più uno strumento molecolare che permette di fare rapide verifiche sui prodotti alimentari (e non solo), riducendo il rischio di frodi. È il DNA barcoding , una metodica che si basa sul sequenziamento di particolari geni (tipicamente, nel caso degli animali, una porzione del gene mitocondriale CoxI) e che fornisce per ciascuna specie una sorta di “impronta digitale” molecolare, unica ed esclusiva. Un codice a barre, appunto: ogni specie ha il suo e basta una veloce sequenza per capire esattamente da dove viene quel trancio di pesce o quell’ala di farfalla.
Pochi giorni fa si è tenuto a Modena il primo workshop italiano tutto dedicato al DNA barcoding. “Con più di 140 iscritti, è stato un successo”, dichiara entusiasta uno degli organizzatori, Mauro Mandrioli, associato di genetica all’Università di Modena e Reggio Emilia. Per due giorni, si è parlato delle due anime della metodica. Sul fronte “applicazioni pratiche”, per esempio, Maurizio Casiraghi, dello ZooPlantLab di Milano Bicocca, ha ricordato i risultati di un’indagine sul palombo mentre il suo collega botanico Massimo Labra ha citato una collaborazione con Università e Polizia scientifica di Genova per verificare il contenuto di potpourri di piante e fiori. Pare infatti che spesso i miscugli vegetali in vendita online siano solo un pretesto per veicolare droghe sintetiche che vengono mischiate a petali e radici. Si è citato anche il lavoro in progress di Renato Bruni (Università di Parma) sullo zafferano: in diverse bustine in vendita in Italia, Bruni ci ha trovato anche curcuma e Crocus vernus (quel grazioso fiorellino che sboccia a fine inverno, parente dello zafferano, ma senza qualità alimentari).
Sul fronte “ricerca tassonomica”, invece, si è fatto il punto su quanto possa essere utile la tecnica non tanto per fare filogenesi – “Per tratteggiare rapporti evolutivi tra organismi non serve”, precisa Mandrioli – quanto per capire velocemente a che specie appartenga quel particolare organismo (o frammento di organismo). E non solo in laboratorio o nei musei, dove il DNA barcoding è fondamentale per esempio per distinguere tra specie criptiche (apparentemente molto simili da essere ritenute una specie unica, ma in realtà distinte). Il codice a barre, infatti, può servire anche in circostanze più insolite: per esempio davanti al freezer pieno di un sospetto bracconiere. È davvero una scorta di manzo quello che c’è dentro, o sono piuttosto parti di un animale di cui sia vietata la caccia?
Sicuramente, però, la notizia davvero interessante emersa dal workshop è la costituzione di un consorzio italiano per il DNA barcoding. In altre parole: molti dei gruppi di ricerca italiani (e anche alcune aziende) che si occupano di questa metodica hanno deciso di riunirsi e di provare a lavorare insieme. Mandrioli riassume gli obiettivi principali dell’iniziativa: “Primo: condividere un patrimonio di conoscenze teoriche e metodologiche, per permettere a tutti di lavorare con gli stessi standard, spaziando dagli animali alle piante. Secondo: identificare gruppi che possano fare formazione per altri sul DNA barcoding. Terzo: promuovere richieste di finanziamento su larga scala. Mettendo insieme gruppi che fanno cose diverse si può pensare per esempio a un progetto di barcoding di tutto il Mediterraneo. Quarto: dare visibilità ai singoli gruppi, costituendo una sorta di vetrina in cui chiunque possa trovare facilmente ciò che gli interessa. Quinto: interagire con laboratori privati che possano essere interessati a commercializzare il barcoding ma che non abbiano tempo e strutture per mettere a punto metodi efficienti”.
Intanto, anche nel nostro paese, una piccola vittora il DNA barcoding l’ha già conquistata: riportare i giovani alla tassonomia, disciplina importante ma ultimamente ritenuta troppo antiquata e polverosa per essere davvero cool. Invece, attratti dalla parte molecolare della tecnica, alcuni studenti stanno tornando ad appassionarsi di classificazione.