Si tratta di due alluci artificiali: uno, in legno e pelle, è custodito al Museo Egizio del Cairo, l’altro, fatto in una sorta di cartapesta molto dura, si trova al British Museum (noto con il nome di Greville Chester, il collezionista che lo acquisì per il museo nel 1881). Finch a causa dei chiari segni di usura del Greville Chester e della forma particolarmente anatomica e pratica di quello custodito al Cairo sospettava da tempo non si trattasse di semplici ornamenti messi sulle mummie, ma che dovessero avere una funzione pratica.
“Qualsiasi arto artificiale per essere classificato come una protesi deve soddisfare alcuni criteri. Il materiale deve essere in grado di sopportare lo sforzo applicato dal corpo, in modo da non rompersi con l’uso. Anche le proporzioni sono importanti per un aspetto normale, che sia accettabile sia per chi indossa la protesi che per gli altri. La protesi deve anche essere facile da pulire, perciò deve essere facile da mettere e togliere. Ma sopra ogni cosa deve essere di giovamento alla camminata,” ha scritto Finch sull’articolo.
Secondo Finch le osservazioni condotte in laboratorio sui due volontari spingono a pensare che entrambi i manufatti fossero funzionali e non ornamentali. Se confermata, quest’ipotesi sposterebbe indietro di un bel po’ la nascita dell’arte medica delle protesi. Fino a oggi infatti gli esperti ritenevano che il primo esempio di protesi fosse la gamba romana ritrovata a Santa Maria Capua Vetere (di cui però esistono solo copie, visto che è andata distrutta durante la Seconda guerra mondiale) che sarebbe più recente dei ritrovamenti egiziani di qualche centinaio di anni (e che comunque non è mai stata testata su dei volontari).