Cina, il controverso mercato di rinoceronti e tigri
Nel 2010 la medicina tradizionale cinese ha escluso derivati di rinoceronte e tigre dai prodotti utilizzabili sui pazienti. Ma un mercato esiste ancora e non mancano decisioni controverse, come il tentativo di autorizzarli se prelevati da animali allevati in cattività.
ANIMALI – Quando entra in gioco la parola tradizione, subito il confronto diventa più difficile. È il caso della Cina, dove per la medicina tradizionale da un lato e per la tradizione dell’intarsio nell’avorio dall’altro – definita nel 2007 “patrimonio culturale intangibile del Paese – a pagare un caro prezzo sono da sempre gli animali selvatici.
L’ultima notizia è arrivata il 12 novembre, quando grazie a un convinto muro di proteste internazionali la Cina ha fatto marcia indietro su un provvedimento che aveva fatto molto discutere. A fine ottobre, infatti, una circolare del governo cinese aveva anticipato provvedimenti per autorizzare e regolare l’utilizzo di ossa di tigre e corni di rinoceronte nella medicina tradizionale – e nella relativa ricerca a scopi medici – se gli animali erano stati allevati in cattività.
Un impegno che vacilla
La World Federation of Chinese Medicine Societies, che stabilisce quali “ingredienti” chi pratica medicina tradizionale possa usare sui pazienti, ha depennato i derivati di rinoceronte e tigre dalla lista nel 2010. La Cina inoltre ha aderito, come molti altri Paesi, alla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES). Già nel 2007 la CITES aveva stabilito che le tigri non dovevano essere allevate per il commercio di loro parti del corpo e che le tiger farms avrebbero dovuto sparire. Non è successo.
Questi provvedimenti, seguiti all’impegno preso dalla Cina nel 1993 di mettere fine al commercio di parti del corpo di rinoceronti e tigri per 25 anni (vietando importazione, esportazione, vendita e trasporto) non hanno fermato la domanda che ha continuato ad alimentare il mercato illegale e il consumo domestico.
L’impegno stabiliva anche che la ricerca sui corni di rinoceronte era lecita solamente se portata avanti con l’intento di identificare dei validi sostituti da impiegare nella medicina tradizionale.
La medicina cinese, alla base di questo mercato deleterio, abbraccia in realtà una lunga serie di pratiche senza alcun fondamento scientifico. Come l’idea che il corno di rinoceronte polverizzato possa curare molte patologie dal cancro alla gotta. Ma non è questo l’aspetto che preoccupa i conservazionisti ogniqualvolta un Paese dichiara di voler allentare la stretta sul commercio domestico di parti di animali. Distinguere le ossa degli animali d’allevamento da quelle di animali bracconati, sottolineano a ogni occasione gli esperti, è virtualmente impossibile.
Non ci vuole molto perché le parti del corpo di animali vittime della caccia di frodo trovino la strada dal mercato nero a quello legale, diventando indistinguibili da quelle di conspecifici cresciuti in cattività salvo vengano analizzati i rispettivi DNA.
E quando il DNA si può analizzare, le risposte che ci dà sono proprio quelle che non vorremmo: secondo l’Environmental Investigation Agency (EIA) meno del 40% delle tigri vive e morte sequestrate tra 2010 e metà del 2018 proveniva dalla cattività.
La stessa possibilità di accedere a questi prodotti manda un messaggio sbagliato, alimentando una domanda che dovrebbe invece gradualmente sparire. Comprare una pelle di tigre per farne un tappeto o indossarne i denti ricoperti d’oro sono uno status symbol da ricchi, non qualcosa di cui vergognarsi.
Allevare, importare
Appena nel 2013 un’indagine sempre dell’EIA aveva documentato la presenza di migliaia di tigri allevate in Cina, in centinaia di tiger farm che continuavano ad aumentare. Questi allevamenti esistono fin dagli anni ’80, aperti inizialmente con l’idea di rispondere alla richiesta di parti del corpo di tigre senza doverle cacciare in natura. A detenere tigri in Cina sono realtà anche note e approvate dal governo, alcune sotto forma di zoo privati e pubblici o di attrazione per turisti con finti scopi di tutela degli animali.
Tra le più note c’è il famoso Tiger Temple, che quasi tutti abbiamo visto nei selfie con cucciolo di tigre di qualche amico su Facebook (qui una bella lettura sul deleterio turismo mordi-e-fuggi per vedere gli animali) e che si è rivelato un punto cruciale del traffico di questi felini, tenuti al guinzaglio ed esposti a scopi di lucro come un’attrazione. Oltre a parti del corpo di varie specie protette, nei freezer del tempio le autorità hanno rinvenuto 40 cuccioli di tigre congelati.
Altre tigri ancora vengono importate dal Laos o dal Vietnam, dove molti zoo sono autorizzati a detenere le tigri e a farle riprodurre, e dove si prepara ancora illegalmente l’ambita “pasta di tigre” facendo bollire le ossa dei felini per molte ore. Il Laos è un punto fondamentale del traffico di animali selvatici nel Sud Est asiatico, soprattutto quelli che arrivano dalla Thailandia e che vengono dirottati in Cina e Vietnam.
Nel 2016 un’indagine del The Guardian ha mostrato che nel solo 2014 gli accordi illegali tra gli ufficiali del primo ministro laotiano e una rete di trafficanti avevano mosso parti del corpo di animali per un valore di 45 milioni di dollari. Le vittime di questi traffici ammontavano a 165 tigri, oltre 650 rinoceronti e 16.000 elefanti. Il commercio di tutte e tre le specie è vietato dalle leggi laotiane così come dalla CITES.
La “riserva” di parti del corpo non avviene però con la sola importazione, anzi, si cerca di crearla in casa persino per i rinoceronti. Un’indagine condotta in Cina da Annamiticus, realtà indipendente impegnata nella tutela della fauna selvatica, ha mostrato che grandi numeri di rinoceronti erano stati importati nel Paese potenzialmente con l’intento di creare delle riserve locali di materia prima. Ovvero i loro corni.
Secondo i dati di Annamiticus nel 2006 e nel 2007 la Cina ha dichiarato di aver importato 117 rinoceronti bianchi meridionali mentre il Sudafrica ha dichiarato l’esportazione di soli 61 esemplari. La preoccupazione rispetto a queste dinamiche ha portato a una moratoria nel 2009, che non ha impedito alla Cina di importare altri 52 rinoceronti (42 quelli dichiarati in partenza dal Sudafrica) tra il 2009 e il 2010.
I dati registrati localmente in Sudafrica, inoltre, non corrispondono a quelli dei registri CITES. La specie, Ceratotherium simum simum, fa parte dell’appendice II della CITES e dovrebbe essere esportata solo verso destinazioni “appropriate e accettabili”.
Ancora status symbol?
La proposta della Cina di legalizzare l’utilizzo di parti del corpo di rinoceronti e tigri d’allevamento ha colto di sorpresa anche perché non è passato nemmeno un anno dalla formalizzazione dell’ivory ban. In un’importante presa di posizione la Cina si era impegnata a vietare interamente il commercio domestico di avorio entro il 2017. Una mossa importante, trattandosi del principale mercato di avorio legale del pianeta insieme agli Stati Uniti.
E se i prodotti derivati da animali selvatici sono ancora status symbol di ricchezza per alcuni, molti altri cinesi non sembrano nutrire lo stesso interesse. Le cose per fortuna cambiano: un sondaggio condotto su duemila persone e pubblicato a settembre da GlobeScan, finanziata dal WWF, ha mostrato che il 72% delle persone non avrebbe acquistato avorio (l’anno precedente erano il 50%).
Non è tutto rose e fiori, ha rimarcato però in un’intervista a National Geographic Jan Vertefeuille, che coordina il lavoro di WWF sul commercio internazionale di avorio. Oltre alla realtà delle case d’asta, ancora problematica per la vendita di avorio, c’è infatti un gruppo di persone il cui interesse per questi oggetti intarsiati non è diminuito ma aumentato. Sono i cinesi che viaggiano oltremare e il motivo non è chiaro. Un altro dato davvero poco incoraggiante, riportato a settembre, è che solo otto cinesi su 100 sono a conoscenza dell’entrata in vigore dell’ivory ban.
Ma anche qui è presto per trarre conclusioni e per capire quanto il divieto abbia influito sul cambio di percezione di parte della popolazione. Ci vorranno, dicono gli esperti, almeno un paio d’anni per fare il punto.
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Fotografia anteprima di Blackseablu, CC BY 3.0