Scoperta l’origine autoimmune della fibromialgia
Dalle Università di Verona e di Genova, una recente ricerca sulla fibromialgia apre nuove strade rispetto i possibili approcci terapeutici alla malattia.
«Mi sento dire: “non è possibile che lei senta così forte il dolore, non c’è niente che possa spiegare questa manifestazione dolorosa”. E allora giù antidepressivi. Non sono depressa, mi dicevo, non lo sono, ho solo bisogno che qualcuno mi creda.»
«Io sono fibromialgica da 14 anni e poco più e sono sinceramente stanca ed arrabbiata per la coltre di indifferenza che ricopre questa sindrome a partire dall’ambiente medico”».
Queste sono alcune tra le testimonianze che si trovano in rete, scritte da donne affette da fibromialgia. Si tratta di una malattia cronica molto complessa: la particolare fenomenologia ne ha reso difficile la diagnosi per molto tempo. All’inizio del Novecento era conosciuta come “fibrosite”, ma con il passare del tempo si è preferito darle un altro nome. Il suffisso -ite infatti indica un’infiammazione, la quale non è un aspetto preponderante nella fibromialgia. Nonostante possa assomigliare ad una patologia articolare, non è artrite, non causa deformità delle strutture articolari: si tratta di una forma di reumatismo extra-articolare o dei tessuti molli.
Nel 1990 l’American College of Rheumatology (ACR) stabilì come sintomi la presenza di dolore diffuso in tutto il corpo e indolenzimento in almeno 11 di 18 punti, i cosiddetti tender points o “punti elettivi di dolorabilità”. Nel 2010 l’ACR stesso ridefinì tali criteri. La prima motivazione per tale cambiamento fu che il conteggio dei tender points veniva raramente eseguito nelle cure primarie, durante le quali si verificavano la maggior parte delle diagnosi di fibromialgia. Quando questo accadeva, spesso la procedura non era fatta in modo corretto: molti medici non sapevano esaminare i punti e alcuni si rifiutavano addirittura di farlo. Oltre a ciò, altri fattori nuovi iniziarono ad essere considerati come caratteristiche chiave della fibromialgia, come: estrema sensibilità al dolore, affaticamento, rigidità muscolare, disfunzioni del sistema nervoso autonomo, sindrome del colon irritabile, secchezza delle fauci, perdita dell’orologio biologico che causa insonnia, spossatezza e giramenti di testa.
Lo studio
A giugno 2020, una ricerca italiana condotta dal dipartimento di Medicina dell’Università di Verona e Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università di Genova sembra aver gettato le basi per un cambiamento importante nella visione e nell’approccio terapeutico rispetto alla fibromialgia. Nell’articolo pubblicato sul Journal of Clinical Medicine si afferma come sia stata appurata l’esistenza di fattori autoimmuni alla base di tale malattia. Abbiamo sentito il professor Antonio Puccetti, dell’Università di Genova, che insieme alla dottoressa Dolcino ed altri colleghi ha condotto lo studio, su “una malattia che si conosce da molti anni, ma per molto tempo è stata classificata come una malattia causata da un fattore psicosomatico, al pari di una malattia mentale. Questo è sicuramente presente, ma non si tratta della causa scatenante: l’eventuale depressione, così come altri problemi sopraggiungono in una fase successiva, trattandosi di una malattia molto invalidante che a causa dei forti dolori non permette di vivere in modo sereno la quotidianità, il lavoro, il rapporto con gli altri. Le difficoltà di diagnosi e la scarsa sensibilità alle cure fanno il resto “.
Cosa vi ha spinto a portare avanti questa ricerca?
Bisogna dire che questa malattia è tra le prime cause di assenteismo sul lavoro, perché colpisce il 10% della popolazione mondiale ed è ugualmente distribuita tra i due sessi, contrariamente a ciò che si pensava fino a poco tempo fa. Non colpisce quindi solo la popolazione femminile, ma abbiamo forti evidenze anche negli uomini. La fibromialgia è dovuta a una neuroinfiammazione: la reazione infiammatoria è localizzata a livello delle terminazioni nervose che traducono i segnali dolorosi, i quali non vengono mediati correttamente ma vengono bensì amplificati. Faccio presente tuttavia che non si tratta solo della cosiddetta “malattia del dolore diffuso” ma ha anche un interessamento a livello viscerale. Questo comporta vari sintomi come intolleranza al glutine, cistiti e poliabortività nelle donne, mentre negli uomini disturbi come prostatiti croniche e via dicendo. La fibromialgia ha quindi un fortissimo impatto sociale, oltre ad essere una sfida per noi medici, trattandosi di una malattia che risponde molto lentamente ai trattamenti. Il dubbio è arrivato dall’osservazione del presentarsi della fibromialgia insieme ad altre malattie autoimmuni: abbiamo quindi condotto questo studio andando a studiare e caratterizzare il genoma dei pazienti.
Che procedure avete utilizzato?
Lo studio è stato condotto analizzando il genoma dei pazienti e confrontandolo con quello di un gruppo sperimentale di controllo composto da persone sane, divise per età e sesso. Nella prima parte dello studio vengono identificati i geni deregolati, propri della patologia. In un secondo momento sono state ricercate le alterazioni a livello cellulare, e qui la scoperta: tali alterazioni infatti riguardavano le cellule del sistema immunitario, con delle caratteristiche molto simili a quelle riscontrabili nelle malattie autoimmuni.
Un cambiamento dell’approccio terapeutico
Fino ad ora, le terapie utilizzate si basavano su un approccio multidisciplinare e dipendevano dalla sintomatologia dei pazienti. Il ricorso ai farmaci era finalizzato all’attenuazione dei disturbi principali accusati: basse dosi di aspirina, ibuprofene e paracetamolo per lenire i dolori, mentre per regolare il ciclo del sonno venivano prescritti antidepressivi triciclici, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina ed altri farmaci ad azione prevalentemente miorilassante. In parallelo, effetti benefici arrivano anche da altri approcci volti al benessere psicofisico, come una corretta educazione ed informazione rispetto alla malattia, counselling o terapia comportamentale ed esercizio fisico.
Cosa cambia con questo studio?
Scoprire l’origine autoimmune della malattia ci permette di curare non più solamente i sintomi ma di dirigerci direttamente all’origine del disturbo, utilizzando farmaci immunoregolatori che regolano la risposta immunitaria dei pazienti. A seconda della gravità della malattia, possono essere adoperati degli immunosoppressori o in alternativa, per i casi più difficili, dei farmaci biotecnologici. Grazie a questo lavoro la fibromialgia è stata inserita nel registro del Centro Nazionale Malattie Rare: questo è un importante riconoscimento per una malattia fino ad ora trascurata e misconosciuta, riconoscimento che apre nuove interessanti possibilità sia per quanto riguarda l’utilizzo e la sperimentazione di nuovi farmaci, sia in merito alla consapevolezza. Confido che grazie a una maggiore conoscenza della malattia infatti sarà più semplice per i pazienti riconoscerla e per i medici diagnosticarla. Codificare la fibromialgia significa inoltre un aiuto anche economico per i pazienti, i quali possono finalmente beneficiare del supporto del Sistema Sanitario Nazionale.
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