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Api e vespe: le differenze e cosa fare in caso di puntura

Per farsi pungere da un'ape bisogna proprio "cercarsela", mentre è facile che le vespe siano attratte dal nostro cibo. Distinguerle è importante, anche in caso di incontro troppo ravvicinato.

Il pungiglione e il sacco velenifero di un’ape ben visibili dopo la puntura. Fotografia di Waugsberg, CC BY-SA 3.0

Sono entrambe a strisce gialle e nere ed entrambe dotate di pungiglione ma, a parte queste due caratteristiche comuni, confondere api e vespe dovrebbe essere impossibile. Eppure spesso accade di sentire un grido d’allarme, “attenzione, un’ape!” mentre a ronzare intorno al nostro panino c’è una vespa.

Conoscere le differenze tra le due è molto importante, sia per capirne il ruolo nell’ecosistema sia per essere preparati ad affrontarne un’eventuale puntura.

Piccolo insetto, enorme ruolo ecologico

Le api sono allevate fin dall’antichità per la produzione di miele. Nel corso del tempo abbiamo imparato a sfruttarne anche altri prodotti, come la propoli e la pappa reale. All’importanza economica delle api si affianca il loro fondamentale ruolo ecologico, perché rappresentano i più importanti insetti impollinatori (o pronubi).

“Se le api scomparissero, all’uomo resterebbero quattro anni di vita”, recita una frase attribuita ad Albert Einstein. E oggi, in effetti, le colonie di api sono in difficoltà, soprattutto in Europa e in Nord America, a causa di tre fattori principali.

Il primo è rappresentato dai cambiamenti climatici, che danneggiano o modificano le fioriture d’interesse. “Ad esempio, la fioritura di Robinia pseudacacia, che consente di produrre il miele di acacia, negli ultimi anni è stata sempre più anticipata ed è avvenuta in periodi meteorologicamente sfavorevoli, in particolare per ritorni di freddo e lunghi periodi di pioggia che distruggono i fiori”, spiega a OggiScienza Marco Porporato, professore di apicoltura presso il dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino.

Il secondo fattore è rappresentato dalle modificazioni del paesaggio agrario e dalla diffusione di colture estensive, che elimina la vegetazione d’interesse apistico. Ultimo, ma non meno importante, l’utilizzo intensivo dei pesticidi, che influenza in modo diretto o indiretto le popolazioni di api.

“In Italia non sono disponibili dati certi riguardo lo stato di salute delle api, ma dalle indagini condotte negli ultimi anni è emerso che le maggiori problematiche sanitarie sono legate alla presenza negli alveari del fungo Nosema ceranae, che si sviluppa nell’intestino delle api adulte provocandone la morte, e dell’acaro ectoparassita Varroa destructor che svolge il ruolo di vettore di numerosi virus”, continua Porporato.

“Il rapido sviluppo di Nosema e virus nelle colonie è spesso conseguenza della presenza nell’ambiente di molecole ad azione insetticida o fungicida che, raccolte dalle api durante i voli di raccolta, ne riducono le difese individuali e collettive, aprendo la via allo sviluppo delle malattie. Tenuto conto delle diverse problematiche, le perdite degli alveari variano dal 10 al 25%”.

Vespe, una grande famiglia

Quelle che comunemente indichiamo come “vespe” rientrano in realtà in un’ampia superfamiglia, i Vespoidea, che comprende un gran numero di imenotteri dai calabroni (Vespa crabro) alle vespe cartonaie (genere Polistes), con la loro abitudine, piuttosto seccante per noi, di costruire i nidi in piccole cavità, come possono essere i mancorrenti privi di chiusura.

Anche le vespe possono avere un modesto ruolo come insetti impollinatori. Tuttavia non avendo interesse commerciale e mancano anche per questo gli studi per capire come l’inquinamento da pesticidi e i cambiamenti climatici ne influenzino la popolazione.

In compenso, vi sono diversi studi e programmi in atto per un rappresentante in particolare di questa superfamiglia: si tratta della Vespa velutina o vespa asiatica a zampe gialle, una specie aliena e invasiva attualmente presente nella Liguria di Ponente e nel basso Piemonte, la cui introduzione in Europa è probabilmente avvenuta con i trasporti navali intercontinentali.

Vespa velutina è una delle minacce che mettono in pericolo le api. Fotografia di Marco Porporato.

La ragione dell’attenzione per la Vespa velutina è nella minaccia che rappresenta per le api, delle quali attacca gli alveari. “Come tutti i vespidi, le larve della Vespa velutina sono allevate con una dieta proteica che le vespe operaie procurano andando a caccia di altri insetti, che trovano esplorando il territorio. Se individuano un alveare, vi tornano: è come un supermercato che garantisce sempre cibo in abbondanza”, spiega Porporato.

“Considerando che una colonia di velutina alleva in media 6 000 larve e che vi possono essere anche dieci nidi per km quadrato, si può immaginare quanto sia alta la pressione di predazione”.

Etologia di api e vespe: perché e come pungono

Conoscere le differenze fra api e vespe è importante anche per affrontarne un’eventuale puntura. Intanto, perché è molto più facile essere punti da una vespa che da un’ape.

“Le vespe pungono se ci si avvicina troppo ai loro nidi, ad esempio se passiamo sul foro d’uscita di una colonia di Vespula, per difendersi dai potenziali nemici”, spiega Porporato. “Inoltre, le vespe sono attratte da cibi proteici, dalle bevande zuccherine, dalla birra, e si possono avvicinare al nostro cibo o alle nostre bevande mentre mangiamo all’aperto”, continua il ricercatore.

Scacciarle bruscamente con la mano è un ottimo sistema per farsi infliggere una puntura, anche perché le vespe non hanno bisogno di pensarci due volte per attaccare: tutte le femmine dei vespidi, infatti, sono dotate di un pungiglione liscio con cui possono infliggere punture ripetute.

Al contrario delle api, per le quali attaccare un “nemico” significa morte certa. “Le api presentano un pungiglione dotato di uncini. Quando un’ape punge una persona, gli uncini le impediscono di ritirare il pungiglione, che di conseguenza si stacca, portando con sé l’apparato velenifero dell’insetto”, spiega Porporato. Il pungiglione rimasto nella vittima può così continuare a rilasciare veleno con un’azione prolungata.

Per questa ragione, è molto importante cercare di rimuovere subito il pungiglione, usando ad esempio delle pinzette ed evitando di “spremerlo fuori”, perché si rischia di iniettare tutto il veleno ancora presente nella sacca velenifera.

Altra differenza importante, se è relativamente più facile essere punti da una vespa (perché il nido è nascosto, o perché lei stessa di avvicina attratta, ad esempio, dal cibo), la puntura di un’ape bisogna davvero cercarsela.

“Le api sono dedite a raccogliere nettare e polline per la colonia”, spiega il ricercatore. “Per farsi pungere bisogna proprio andare a darle fastidio mentre è intenta nel suo lavoro di raccolta su un fiore, oppure avvicinarsi troppo a un alveare e interferire con le traiettorie di volo”.

Un cocktail di veleni

Il veleno dei due insetti non è uguale nella composizione ma vi sono sostanze in comune, tra cui l’istamina, che dilata i vasi sanguigni e aumenta la permeabilità capillare. Gli allergeni, cioè le proteine che possono indurre la risposta allergica, possono invece essere specifici di un veleno o comuni a più veleni.

Tra questi sono particolarmente importanti le fosfolipasi A2, specifiche del veleno dell’ape, e le fosfolipasi A1 del veleno dei vespidi. Si tratta di enzimi in grado di distruggere i fosfolipidi, per cui danneggiano la membrana delle cellule causandone la morte. Caratteristica del veleno dell’ape è la mellitina, un peptide con attività emolitica e citotossica, che rappresenta inoltre un allergene importante.

Alcuni allergeni hanno analogie strutturali nel veleno dell’ape e delle vespe, per cui possono causare una cross-reactivity. Le immunoglobuline dirette contro un particolare allergene reagiscono anche verso un altro allergene simile.

Che si tratti di una puntura di un’ape o di quella di una vespa, l’esperienza non è certo piacevole. Diversi componenti del veleno hanno un’azione pro-infiammatoria, ed è normale osservare arrossamento e gonfiore nella zona interessata, con la formazione del classico pomfo.

Dopo aver estratto il pungiglione, nel caso di puntura da parte di un’ape, si può lenire il dolore e ostacolare l’infiammazione con un impacco freddo. È anche bene disinfettare la zona per evitare che s’infetti. In seguito, possono essere usate creme a base di cortisone per alleviare l’infiammazione.

Il problema delle allergie

In alcuni casi il veleno di api e vespe, così come quello degli altri imenotteri svolazzanti durante la bella stagione, può causare reazioni allergiche più o meno gravi. Poiché i veleni sono un cocktail di diverse sostanze, una persona può essere allergica solo ad alcuni insetti oppure a entrambi, a seconda del componente maggiormente responsabile dell’allergia.

Per stabilirlo esistono appositi test diagnostici, in grado di identificare anche i singoli allergeni responsabili della reazione. Tuttavia, è sensato sottoporsi a questi esami solo quando una prima puntura ha scatenato una reazione che lasci sospettare lo sviluppo di un’allergia.

La reazione allergica non si sviluppa alla prima puntura perché, come per ogni altra allergia, è necessaria prima una fase di sensibilizzazione dell’organismo.

“Dopo la prima puntura, il nostro sistema immunitario produce una risposta Ig E-mediata per uno o più allergeni; è solo alla seconda esposizione (in questo caso, puntura), che la risposta immunitaria attiva in modo non regolato la risposta allergica, inducendo una liberazione massiccia di mediatori che a seconda dell’entità della risposta può determinare una reazione locale o una reazione sistemica di varia gravità”, spiega a OggiScienza la dottoressa Donatella Bignardi, dell’unità operativa di allergologia presso l’ospedale San Martino di Genova.

Si può sospettare un’allergia locale quando la reazione, a seguito di una puntura, è estesa e prolungata nel tempo. Ma a spaventare di più sono le reazioni sistemiche, perché possono causare uno shock anafilattico che, se non trattato tempestivamente, può avere esito fatale.

“Vi sono diversi livelli di gravità, dalle reazioni cutanee a quelle respiratorie e cardiocircolatorie, le più pericolose”, continua Bignardi. “Si tratta di reazioni che si presentano molto rapidamente dopo la puntura, in genere da pochi minuti a mezz’ora, e non esiste una regola fissa sulla loro comparsa: vi sono persone in cui si manifestano reazioni gravi sebbene la prima puntura fosse asintomatiche, altre per le quali l’andamento è progressivo, con una reazione che peggiora a ogni esposizione”.

Le possibilità dell’ immunoterapia specifica

Se dopo la puntura dell’insetto compaiono reazioni sistemiche, è sicuramente bene fare un test diagnostico. Ma come si può evitare un grave shock anafilattico? Non possiamo certo pensare di vivere in una tuta protettiva.

“La persona che ha avuto una reazione sistemica con sintomi respiratori o cardiocircolatori e con una documentata allergia – in cui sia stato identificato il veleno causale – può sottoporsi a un’immunoterapia specifica, che induce una tolleranza immunologica al veleno regolando la risposta immunitaria, proteggendo da successive reazioni”, spiega la dottoressa.

“In pratica, viene somministrato il veleno purificato con iniezioni sottocutanee, a dosi inizialmente molto basse e con protocolli più o meno rapidi (nel caso dei protocolli da svolgere ambulatorialmente, le sedute sono in genere settimanali). Il meccanismo di questo tipo di terapia è molto complesso, ma l’azione centrale è sulle cellule T regolatore del sistema immunitario, riducendo la produzione delle Ig E [le immunoglobuline maggiormente coinvolte nelle risposte allergiche] e  aumentando le Ig G e le citochine contro-regolatorie”.

L’immunoterapia si è rivelata estremamente efficace, ma è un impegno per chi vi si sottopone, perché deve continuare per almeno cinque anni, allungando i tempi tra una somministrazione e la successiva. Dopo questo periodo, si può valutare se prolungarla nel caso vi siano specifici fattori di rischio, quali reazioni allergiche particolarmente violente o altre malattie in corso, ad esempio a carico del sistema cardiocircolatorio.

La difesa dall’adrenalina

Altro valido elemento di difesa per chi sa di essere allergico è l’adrenalina. “La ritardata somministrazione di adrenalina è uno dei principali fattori di rischio per l’esito fatale dell’anafilassi. L’adrenalina agisce rapidamente ed è in grado di antagonizzare la risposta allergica a tutti i livelli, sostenendo il circolo sanguigno e l’attività cardiaca, oltre ad agire da broncodilatatore”, spiega ancora Bignardi.

“Affinché sia disponibile facilmente in tempi rapidi, chi è a rischio deve portare con sé l’auto-iniettore, un dispositivo che permette di somministrare una dose di adrenalina a livello intramuscolare nella coscia; bisogna inoltre assumere (o far assumere a chi è stato punto) una posizione supina e con le gambe sollevate. Se ci sono problemi di respirazione, anche il busto deve essere mantenuto leggermente sollevato”.

L’intervento non si estingue però con l’iniezione. “Il paziente deve essere portato immediatamente in pronto soccorso per proseguire le terapie con eventuali altre somministrazioni di adrenalina, fluidi o cortisonici”.

Non allarmiamoci troppo, però. Quello di gravi reazioni anafilattiche è sicuramente lo scenario peggiore ma – sebbene gli studi aggiornati per l’Italia siano in corso – gli ultimi dati epidemiologici a disposizione stimano che dei cinque milioni di persone punte da un imenottero ogni anno solo l’1-8% svilupperà una reazione allergica.

Leggi anche: Punture di medusa, cosa bisogna fare?

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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.