COSTUME E SOCIETÀ

Cellulite: non chiamatela malattia

Secondo uno spot tv, la pelle a buccia d’arancia è una patologia (la crema pubblicizzata, ça va sans dire, ne è la cura). In nome del marketing, un inestetismo cutaneo può essere trasformato in una questione di salute? Ne parliamo con Gilberto Corbellini, docente di storia della medicina all’Università La Sapienza di Roma

COSTUME – L’85% delle donne, dai 18 ai 65 anni, ha la pelle a buccia d’arancia. Non si salvano neanche le più giovani e snelle. Direste mai, per questo, che sono malate e dovrebbero curarsi? Un noto marchio di prodotti anti-cellulite lo ha fatto. Senza tanti giri di parole. La pubblicità afferma stentorea: “La cellulite è una malattia”. Qualche secondo di pausa, e la voce riprende: “XXX è il medicinale per curarla”. Fine dello spot. Se l’intento dei pubblicitari era catturare l’attenzione della malcapitata davanti al televisore e persuaderla di avere un problema da trattare, beh, probabilmente ci sono riusciti. Ma in nome del marketing è lecito trasformare in una questione di salute un inestetismo cutaneo che è, semmai, solo una questione di bellezza? Come si fa a spacciare per “malattia” una condizione che di patologico non ha nulla?

“Dipende da cosa intendiamo per malattia, concetto versatile i cui contorni si allargano e si restringono a fisarmonica a seconda delle epoche storiche, lasciando spazio a interpretazioni strumentali”, risponde Gilberto Corbellini, docente di storia della medicina all’Università La Sapienza di Roma. “Nel senso naturalistico, ottocentesco, del termine, la malattia è ciò che mette a rischio la sopravvivenza o la capacità di riproduzione dell’individuo, ed è palese che la cellulite non rientra in questa definizione. Ma nell’accezione più ampia e contemporanea del termine si intende per malattia tutto ciò che altera lo stato di salute, definito dall’Organizzazione mondiale della sanità non già come la mera assenza di malattia, ma come ‘completo stato di benessere fisico, psicologico e sociale’. Posto in questi termini – prosegue Corbellini – qualunque problema diventa relativo. Se una certa disfunzione comporta un disagio che impedisce all’individuo di sentirsi a posto con se stesso e con gli altri, come può essere la cellulite, ecco che si connota come malattia, pur essendo tale solo per effetto del contesto socioculturale, e non per l’effettiva mancanza di salute”.

Il piano è scivoloso. E le aziende farmaceutiche ci hanno marciato. È così che è iniziato il processo di medicalizzazione della società. È così che siamo diventati tutti potenziali pazienti. C’è stato margine per creare a tavolino malattie inesistenti (la cellulite è l’ultima invenzione). O elevare al rango di malattia disturbi fisiologici dell’invecchiamento (come l’osteoporosi, la progressiva perdita di massa ossea che nelle donne si accentua naturalmente dopo la menopausa, o la disfunzione erettile negli uomini, a dispetto del fatto che con l’avanzare dell’età sia normale il calo delle prestazioni sessuali, necessariamente meno vigorose a sessant’anni che a venti). E ancora, sono state corrette al rialzo o al ribasso le soglie di rischio (i limiti del colesterolo o della pressione, per esempio) in modo da considerare malate persone fino a ieri giudicate sane. Tutto per vendere più farmaci. Il fenomeno, chiamato “disease mongering” (o mercificazione della malattia), è divenuto così rilevante negli ultimi anni da spingere autorevoli riviste mediche internazionali a sollevare una riflessione critica (Qui lo speciale di PLoS).

“Alla fine dell’Ottocento, era considerata una malattia ‘quell’insana tendenza degli schiavi a fuggire’. Fino agli anni Settanta del secolo scorso, l’omosessualità e la masturbazione erano classificate come ‘patologie’. Al giorno d’oggi, chiamiamo tali la calvizie, la cellulite, le rughe, i peli superflui”, prosegue Corbellini, che è anche autore di un saggio intitolato “Breve storia delle idee di salute e malattia” (Carocci). “Ogni società ha i suoi mali, cartina di tornasole del tempo in cui si vive”.

Il nostro, è fin troppo evidente,  è il tempo dell’immagine.

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