Non è tanto il ricercatore che conosce i suoi revisori il problema, quanto l’inverso. Ne è un lampante esempio la recente vicenda del metodo STAP (che abbiamo seguito qui e qui, e che si è conclusa qui), che appariva decisamente troppo bello per essere vero – infatti non lo era – e in cui, come si legge su Nature, molti scienziati hanno accettato i paper con una certa superficialità proprio in funzione della reputazione dei co-autori, che a differenza della meno nota autrice Haruko Obokata erano figure di spicco nella ricerca sulle staminali. La fama pregressa degli autori, o un gran numero di paper già pubblicati come garanti, possono -anche inconsciamente- fare la differenza, impedendo a ricercatori meno noti di emergere e riducendo, a volte, la qualità della peer review stessa.
Come spiega su Nature Mark Burgman, biologo dell’Università di Melbourne e caporedattore di Conservation Biology, la sua rivista sta sondando il terreno in merito da circa un anno, incontrando nei ricercatori un favore e un supporto alla peer review a doppio cieco decisamente entusiasti. Soprattutto nei più giovani, e in quelli appartenenti alle minoranze. Un primo esperimento è in corso su due riviste del Nature Publishing Group, Nature Geoscience e Nature Climate Change. Entrambe hanno offerto il servizio di peer review a doppio cieco tra le opzioni a disposizione dei ricercatori, e a partire dal dicembre 2013 la prima ha ricevuto richieste di revisioni in questa forma per il 15% di quelle totali pervenute, la seconda per circa il 22%.
Si tratta di piccoli numeri ma siamo agli inizi, e secondo gli esperti molti ricercatori non sono neanche a conoscenza di avere questa possibilità di scelta. Oppure temono che elaborare i paper in modo da eliminare i dati che rendono riconoscibili gli autori possa ritardare la revisione e, di conseguenza, l’eventuale pubblicazione. Come spiega Alastair Brown, condirettore di Nature Climate Change, il prossimo passo sarà sondare il terreno con i revisori e con gli scienziati autori stessi, per decidere se indicare o meno sul paper a quale tipo di peer review è andato incontro. “Questo procedimento rende il processo di revisione un po’ più scientifico”, commenta Brown, “eliminare la possibilità che si verifichino bias, anche inconsci, è certamente cosa buona”.
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