CRONACA – Non finisce bene (in realtà pare non finisca affatto) la vicenda di Haruko Obokata, la scienziata giapponese del Riken Center for Developmental Biology accusata di aver falsificato parte del materiale di due paper pubblicati su Nature a gennaio, nei quali si illustrava una tecnica innovativa e decisamente rivoluzionaria per ottenere cellule staminali. Secondo quanto riportato da Obokata e i suoi co-autori, sarebbe stato possibile ottenere cellule staminali pluripotenti a partire da cellule del sangue mature, semplicemente sottoponendole a condizioni di stress come abbassamento del pH o pressione meccanica sulla membrana cellulare.
Ne avevamo già parlato in marzo in quanto i dubbi sono arrivati presto, quando molti team di ricercatori esperti in cellule staminali hanno miseramente fallito nel replicare la tecnica, e hanno cominciato a segnalare svariati elementi che non quadravano. Si parlava di duplicati e di plagio, con il “riciclo” di dati e immagini che, pare, provenivano dalla tesi di dottorato della stessa Obokata pubblicata nel 2011. Alle numerose segnalazioni è seguita la richiesta di ritiro temporaneo da parte di un co-autore, con la conseguente investigazione a opera di un comitato appositamente costituito. Cinque scienziati (tre dei quali ricercatori al Riken Center) e un avvocato hanno recentemente riportato i risultati dell’indagine, confermando i dubbi sollevati dai vari esperti di cellule staminali.
Manipolazioni e cattiva condotta
Un primo problema riguardava un’immagine raffigurante elettroforesi, nella quale una delle “corsie” per il gel era stata scambiata con un’altra. L’autrice si era giustificata dicendo d’averle modificate per migliorare la qualità dell’immagine, senza pensare fosse un problema in quanto non comportava differenze al fine dei risultati. Il comitato non ha accettato la spiegazione, ritenendo lo scambio una manipolazione intenzionale e severamente fuorviante, nonostante il mea culpa di Obokata, che ha ammesso di aver agito in modo irresponsabile e immaturo ma non con cattive intenzioni.
Una seconda questione – tra le molte sollevate – riguardava invece un’immagine che mostrava il rapido sviluppo delle “nuove” cellule staminali subito dopo la pressione effettuata sulle membrane con una pipetta. L’immagine, come rivelato in seguito, proveniva in realtà dalla tesi di dottorato di Obokata, la quale ha dichiarato di essersi sbagliata inserendola accidentalmente al posto di quella correlata al nuovo paper. Anche in questo caso la modifica è stata giudicata una frode, insieme a molti altri elementi che hanno portato gli esperti a concludere che si è trattato di manipolazione intenzionale dei dati, e di cattiva condotta da parte della ricercatrice.
La vicenda (non) si conclude
L’autrice ha infine ammesso di aver sbagliato e di aver manipolato intenzionalmente le immagini, seppur non allo scopo di perpetrare una frode scientifica. Le immagini, ha spiegato, non compromettono in alcun modo quelli che sono i risultati dello studio, e la validità del metodo chiamato STAP (stimulus-triggered acquisition of pluripotency). Obokata ha dunque rifiutato l’accusa di contraffazione della ricerca in sé, e il ritiro del paper che, secondo lei, verrebbe interpretato come un’ammissione del fatto che lo studio era completamente falsificato. Ha chiesto invece di avere accesso ai dati e al materiale che si trovano nel suo laboratorio per poter dimostrare la sua buona fede e ripetere la tecnica che, ha dichiarato, ha già concluso con successo più di duecento volte, anche in presenza di altri ricercatori. Secondo Kenneth Lee, biologo dell’Università di Hong Kong che per quattro volte ha fallito nel replicare il metodo, lo STAP è possibile, “ma non con il metodo di Obokata”. Un co-autore dello studio e collaboratore di Obokata, Yoshiki Sasai, concorda sul fatto che la tecnica possa funzionare, perché anche rimuovendo i dati manomessi dal paper, i risultati non si spiegano se non con lo STAP. Anche stavolta, staremo a vedere.
Fonti: The Japan Times, The Guardian, Nature
Crediti immagine: Nissim Benvenisty, Wikimedia Commons