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Convivere con gli elefanti, grazie alle api

Il conflitto con gli esseri umani è critico nella conservazione degli elefanti, che spesso razziano le colture in cerca di cibo. Un progetto efficace (e creativo) ha trovato un compromesso tra sostenibilità, conservazione e salvaguardia delle popolazioni locali. Umane e animali

Con il suo lavoro Lucy King ha trovato il compromesso per la convivenza di umani ed elefanti, uno degli aspetti più critici in molti progetti di conservazione. Fotografia di Elephants and Bees

Nel 2006 Lucy King, biologa dell’Università di Oxford, iniziava a studiare il conflitto tra esseri umani ed elefanti (Loxodonta africana) nel territorio dello Tsavo National Park, in Kenya. Ogni anno, in un periodo che coincideva più o meno con la stagione secca, gli elefanti della savana si spingevano vicino ai villaggi e devastavano le colture, mangiando quanto trovavano e causando danni ingenti ai contadini locali. Alla prima visita ne seguivano di solito molte altre, perché trovata una fonte di cibo i grossi pachidermi non esitavano a tornare per mangiare di nuovo.

Così King decise di esplorare con uno studio scientifico un possibile deterrente: le api mellifere africane (Apis mellifera scutellata). Riproducendo il suono degli sciami innervositi, nei pressi degli elefanti, ha avuto la conferma che ne erano spaventati e che li faceva scappare. Servendosi di microfoni estremamente sensibili ha registrato le reazioni degli elefanti e scoperto che gli individui che sentivano quel rumore concitato si affrettavano a segnalare la minaccia ai compagni più lontani, con un barrito a basse frequenze (15-30 Hertz) che li avrebbe spinti a battere in ritirata. Le api erano percepite come un pericolo.

Nel tempo gli elefanti si abituano a questo rumore e il deterrente, se al ronzio arrabbiato non seguono le punture, a un certo punto risulta inefficace. Ma serve molto tempo perché questo succeda, ed è proprio il tempo che serve per poter costruire il deterrente vero e proprio.

Api guardiane per la conservazione

Dal lavoro di ricerca di King e dei colleghi sono nati i beehive fence, “recinzioni” fatte solitamente di due pali che sostengono le arnie di api africane e circondano tutta la zona da proteggere dalle incursioni degli elefanti. Sono il “risultato pratico” di Elephants and Bees Project, un progetto di conservazione coordinato da King che è riuscito a conciliare la tutela di una specie a rischio con la sua convivenza con gli umani. Un aspetto critico che – lo sappiamo bene noi con il lupo italiano – è spesso in primo piano quando si tratta di prendere decisioni a tema ambientale: la chiave per proteggere una specie risiede anche nel coinvolgere le persone con le quali condivide un territorio.

Il primo passo per dei progetti efficaci e realistici è prendere atto di questa necessità e trovare il modo giusto per rispondervi.

Gli elefanti africani non conoscono confini: percorrono enormi distanze e non rimangono sempre all’interno dei parchi, il che li porta a scontrarsi con le popolazioni locali con conseguenze sociali, economiche e di conservazione che interessano tutta l’Africa. E se l’incontro uomo-elefante si trasforma in uno scontro, le conoscenze su questi animali straordinari ci dicono che i risultati sono a lungo termine: un pachiderma ferito può diventare molto pericoloso e la sua morte non riguarda lui solo, ma l’intero nucleo familiare.

Gli elefanti hanno dei richiami riservati esclusivamente a noi, una sorta di “All’uomo! All’uomo!”, nonché una prodigiosa memoria. La loro vita sociale è incredibilmente ricca, sono capaci di ricordare i propri simili (e gli umani) per moltissimi anni e alcuni studi suggeriscono che, quando hanno perso un compagno per mano dell’uomo, possono diventare più aggressivi nei nostri confronti. Sono sempre di più le osservazioni di elefanti intenti in quelli che a noi sembrano rituali funebri, nei quali coprono un familiare o un compagno con fronde e rami o tornano a far visita ai resti.

Dalle api al miele per proteggere gli elefanti. E il raccolto dei contadini

Negli anni i recinti-arnia sono stati perfezionati e hanno viaggiato in tutto il mondo. Il progetto ha portato le sue api attraverso l’Africa (Mozambico, Chad, Tanzania, Uganda, Gabon…) ma anche in Thailandia. Ad esempio nel Phu Luang Wildlife Sanctuary, casa di circa 100 elefanti asiatici dove ha avuto un tasso di successo del 74% nel tenere i pachidermi lontani dalle piantagioni di riso e granturco di sei villaggi. Altri recinti sono in via di costruzione per tenere lontani gli elefanti che si avventurano fuori dal parco nazionale Khoa Siphachun.

“Gli elefanti sono venuti alla mia fattoria, ma non sono entrati perché c’era questo recinto di arnie”. Dal video Disney sul progetto Elephants and Bees, qui su Vimeo

Anche in India sono stati costruiti centinaia di metri di recinto intorno a vari villaggi, e anche lì i contadini sono stati soddisfatti: appena gli elefanti lo toccavano, la reazione delle api (indiane stavolta, Apis cerana indica) era sufficiente a farli allontanare. Non sarebbero più tornati.

Per le popolazioni locali che scelgono questa strada, che non solo concilia gli interessi umani e animali ma è sostenibile (e vantaggiosa dal punto di vista economico), c’è anche un ulteriore bonus: il miele elephant-friendly prodotto in tutte le arnie che circondano i campi. Elephants and Bees Project acquista tutto il miele crudo dai contadini, assicurandosi così che abbiano una ulteriore fonte di reddito e un altro buon motivo per impegnarsi e farsi coinvolgere nel progetto.

Il miele di ogni fattoria è diverso dagli altri, prodotto dalle api che naturalmente arrivano a occupare le arnie dei recinti. E che forniscono un ulteriore servizio: quello di impollinazione. A partire dal 2013 il progetto ha iniziato a monitorare anche questo aspetto.

Un altro beneficio è che in ogni realtà coinvolta vengono condotti degli studi sul comportamento degli elefanti. Dopo che un campo ha subito una razzia i team di Elephants and Bees si recano sul posto per effettuare misurazioni, cercare tracce e compilare delle “mappe” della migrazione degli elefanti sul territorio. In questo modo è anche possibile capire se sono le fattorie a trovarsi sulla loro strada di migrazione o se gli animali vi si recano appositamente per poi fare ritorno da dove sono venuti.

In Kenya è stato anche implementato un sistema di fototrappole, per riprendere il comportamento notturno degli elefanti ma anche quello delle api (è il loro rumore a spaventare i pachidermi, o escono attivamente dalle arnie per attaccarli?), oltre a documentare la presenza di altre specie che potrebbero a loro volta razziare i campi. Come babbuini e cammelli.

Nonostante i danni subiti, la popolazione locale è più che coinvolta e curiosa di scoprire cosa combinano gli elefanti e le altre specie nei dintorni dei villaggi. Un’ulteriore vittoria. “Sono sempre impazienti quanto me e mi vengono vicino quando scarico le foto della fototrappola sul computer, per scoprire cosa abbiam o catturato e come si comportano gli elefanti nei dintorni delle loro fattorie”, spiega sul sito del progetto Mediva, tirocinante in Kenya.

Oggi Lucy King vive a Nairobi, coordina lo Human-Elephant Co-Existence Program di Save the Elephants ed è membro dell’African Elephant Specialist Group dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN). Il suo Elephants and Bees Project è cresciuto e ha permesso di pubblicare molti studi, oggi tra i partner conta anche Save the Elephants e il Disney Conservation Fund ed è più importante che mai, in un momento critico per gli elefanti. Ogni anno, per mano del bracconaggio, ne vengono massacrati quasi 30 000. Sudafrica e Uganda, insieme ad alcune aree di Malawi e Kenya, ospitano ancora dei numeri significativi di elefanti. Ma l’ultima, vera roccaforte del continente africano rimane il Botswana, con 130 000 esemplari lungo i fiumi Chobe e Savuti e attraverso il Delta dell’Okavango.

@Eleonoraseeing

Leggi anche: Gabon, in 10 anni sterminati 25000 elefanti

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".