POLITICA

Elezioni politiche: Liberi e Uguali e scienza

Quali sono le posizioni dei partiti politici sui temi scientifici di maggior rilievo come vaccini, OGM e innovazione?

Quali le risposte del PD alle nostre domande su ambiente, sanità, innovazione, istruzione e ricerca?

POLITICA – In occasione delle imminenti elezioni politiche io e i colleghi Gianluca Liva, Marco Milano e Veronica Nicosia abbiamo riflettuto su quali fossero le tematiche scientifiche più rilevanti o di maggiore attualità nel nostro Paese. A quel punto abbiamo posto le stesse domande su questi temi, suddivise in macroaree, ai principali partiti politici in corsa per le elezioni. Queste sono le posizioni di “Liberi e Uguali”, per il quale hanno risposto Loredana De Petris – candidata al Senato della Repubblica a Roma -, Marco Grimaldi – candidato alla Camera dei Deputati a Torino -, Alessia Petraglia – candidata al Senato della Repubblica a Firenze -, Sara Prestianni – candidata alla Camera dei Deputati nella circoscrizione estera Europa 1. -, Claudia Pratelli – candidata alla Camera dei Deputati a Roma.

SANITÀ E RICERCA

Vaccini e obbligatorietà: qual è la posizione del vostro partito e cosa pensate di fare una volta al governo? Siete favorevoli o contrari e per quale motivo?

Alessia Petraglia – Il valore delle vaccinazioni non può essere messo in dubbio, questo per noi è un punto molto chiaro su cui non accettiamo strumentalizzazioni. Ci sembra del tutto pleonastico, se non puro esercizio di retorica, sottolineare quanto siano stati fondamentali per debellare malattie mortali, o come rappresentino un mezzo efficace di prevenzione.

Il problema per noi non è mai stato questo. Il problema è stato aver affrontato un tema tanto delicato e importante in un clima di intolleranza e caccia alle streghe come quello creatosi in seguito all’intervento scomposto del Governo e della Ministra Lorenzin, che ha decretato, di fatto, l’impossibilità di soffermarsi sul merito del decreto. Era impensabile, infatti, che un decreto-legge potesse mutare l’opinione dei tanti che, oggi, nutrono dubbi sull’opportunità di vaccinare se stessi o i propri figli, o di chi valuta di essere sottoposto soltanto ad alcune vaccinazioni. E’ successo proprio questo: l’incapacità di comunicare e diffondere una giusta cultura sanitaria ha messo in luce la pessima condizione di un servizio sanitario pubblico (servizi vaccinali compresi) che non è in grado prendere in carico la salute dei cittadini, né tantomeno di far crescere la consapevolezza del bisogno di salute.

Il Governo ha scelto di trasformare un tema di salute pubblica in una crociata, rinunciando a spiegare con una grande campagna di comunicazione e informazione le motivazioni per cui ancora oggi i vaccini siano indubbiamente perfettibili, ma irrinunciabili. Non essendoci un’emergenza nazionale, come dichiarato dallo stesso Presidente Gentiloni, ci siamo chiesti perché non si siano utilizzati altri più efficaci strumenti per ricomporre la frattura creatasi tra cittadini e scienza, tra cittadini e Servizio sanitario nazionale. Erano necessaria trasparenza e informazione scientifica neutra e corretta, che sciogliessero ogni legittimo sospetto di intreccio tra multinazionali del farmaco e sanità pubblica.

I problemi susseguitisi successivamente all’approvazione del decreto hanno reso manifesta l’incapacità del Governo nel rendere efficiente il Servizio sanitario nazionale, rafforzandolo laddove necessario per assolvere all’obbligo vaccinale. Non sono state previste risorse per assunzioni di infermieri, medici, personale sanitario, nè per la riapertura dei presidi territoriali e dei consultori che in molte zone del nostro Paese sono stati chiusi o svuotati di funzioni attraverso il susseguirsi dei tagli alla sanità.

Il decreto è anche riuscito nell’intento di creare una frattura tra salute e diritto all’istruzione, due diritti fondamentali dell’individuo. Ci sembra necessario stigmatizzare come l’approccio coercitivo sia tipico di Paesi arretrati, che scelgono una verticalizzazione autoritaria in luogo della consapevolezza e della partecipazione democratica agli obiettivi comuni della collettività.

La Legge sul Biotestamento è stata approvata lo scorso dicembre e la prima malata di Sla ha potuto beneficiarne proprio in questi giorni. Sabato ha lasciato che venisse staccata la spina nella sua casa di Nuoro. Qual è la vostra posizione come partito e come pensate che possa essere, in caso, migliorata?

Alessia Petraglia – L’approvazione della Legge sul Biotestamento ha rappresentato un momento molto importante della scorsa legislatura e della storia del nostro Paese. È una legge che riconosce il diritto di scegliere:  non di praticare l’eutanasia, ma di non subire un inutile e doloroso accanimento terapeutico.

Abbiamo sancito i principi di autodeterminazione, cura e fiducia tra medico e paziente, attraverso una relazione paritaria che consenta sia di accedere a una piena informazione, che di poter esprimere il proprio consenso, libero e informato appunto, alla nutrizione e idratazione, riconosciuti come trattamenti sanitari. La letteratura specialistica precisa che la formazione di un autentico consenso informato presupponga sempre la contemporanea presenza di almeno quattro elementi: l’offerta dell’informazione, la comprensione da parte di chi la riceve, la libertà decisionale del paziente e la sua capacità decisionale.

Ogni individuo ha diritto alla propria autonomia decisionale, anche nel rifiuto delle cure e nella revoca dello stesso. La legge afferma proprio questo: un diritto, una possibilità. Non un obbligo. La legge parla anche di terapia del dolore: ogni Paese civile deve garantire ai malati tutti gli interventi utili ad alleviarne la sofferenza, sempre, anche in caso di rifiuto e revoca del consenso al trattamento, compresa la sedazione profonda. La crescente capacità terapeutica della medicina moderna consente oggi di protrarre la vita in condizioni che un tempo erano assolutamente impensabili: un grande risultato derivante dal progresso della medicina. Dobbiamo tuttavia pensare alle conseguenze di tale evoluzione, assicurandoci che esse siano sempre volte ad assicurare il rispetto della dignità dell’individuo.

La criticità principale è, ancora una volta, la clausola dell’invarianza delle risorse, che scarica sugli operatori oneri e responsabilità dell’applicazione. È una legge equilibrata, attesa per molti anni da milioni di cittadini, e che ha consentito di restituire dignità al destino di tanti. Con rispetto, con immensa partecipazione ma anche con laicità, come è necessario faccia uno Stato democratico che deve tutelare gli interessi di tutti. La sfida ora è dare una piena e corretta attuazione a questa legge, senza consentire squilibri a livello territoriale che colpirebbero, ancora una volta, le persone malate e le loro famiglie.

Fecondazione assistita, cosa pensate della legge 40? Quali sono i limiti e le potenzialità di questa legge? Se dovesse pensare ad un miglioramento, cosa farebbe?

Alessia Petraglia – Come sappiamo, il divieto imposto dalla legge 40 è stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale 2014. Una legge che impediva il ricorso alla terapia nei casi di sterilità assoluta, con un evidente lesione del principio di uguaglianza. Una imposizione che creava tra l’altro una grossa discriminazione sotto il profilo economico: soltanto chi poteva permettersi di andare all’estero poteva accedere alla fecondazione eterologa, alimentando il fenomeno di turismo procreativo. Ancora oggi, tuttavia, il ricorso all’ovodonazione risulta ostacolato soprattutto dalla scarsità di donatrici di ovociti.

L’accesso alla fecondazione eterologa è tra l’altro consentito alle sole coppie eterosessuali, mentre è vietato alle coppie omosessuali: una discriminazione che non può essere avallata, soprattutto dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili. Altra criticità da segnalare riguarda le analisi preimpianto: è vero che oggi sono consentite, ma è anche vero che per quanto concerne la sanità pubblica, è molto difficile poter accedere a questo tipo di analisi, data l’inadeguatezza di molte strutture pubbliche. Moltissime coppie sono quindi costrette ad effettuare queste analisi in strutture privata, a proprie spese.

Staminali, in Italia ancora tanti tabù. Qual è la posizione del vostro partito in merito? Per quale motivo ritenete che la ricerca con le staminali potrebbe o meno essere un bene per il Paese e lo sviluppo in campo medico di nuove terapie?

[senza risposta]

In Cina per la prima volta sono state clonate due scimmie con il metodo della pecora Dolly. E intanto il metodo CRISPR permette di tagliare e incollare il Dna. Le staminali embrionali in Italia invece restano vietate, ma la ricerca scientifica prosegue e rappresenta delle possibilità per la medicina: quale è la posizione del vostro partito sulla clonazione e la manipolazione genetica?
Come pensate sia possibile regolarizzare anche da un punto di vista etico, oltre che politico, questo tipo di sperimentazioni?

[senza risposta]

AMBIENTE

Rinnovabili o nucleare? Qual è la politica energetica del vostro partito? Quale pensate che possa essere la risposta migliore alle esigenze energetiche del Paese e come pensate di soddisfarle?

Loredana De Petris: Nel nostro programma abbiamo sviluppato molte proposte che dovrebbero ormai essere alla base di qualsiasi riflessione sul futuro, per il nostro Paese e per i risvolti geopolitici mondiali: l’economia fossile è la causa di conflitti e ricatti da parte di grandi regimi e lobbies. Gli strumenti normativi, anche a livello internazionale e comunitario, esistono da molto tempo: pensiamo al principio Chi Inquina Paga, che potrebbe essere concretamente applicato attraverso la Carbon Tax. L’obiettivo deve essere quello di liberare le economie più promettenti e solide, già presenti in Italia, spingendo il comparto industriale ad accelerare riqualificazione e trasformazione in chiave green al fine, ad esempio, di recuperare risorse per le bonifiche e il risarcimento di persone e territori sacrificati ad un’industria inquinante e obsoleta. Vogliamo una revisione della fiscalità in chiave ambientale: la Carbon Tax, presente diversi paesi europei, sposta il prelievo dal lavoro al “consumo di ambiente”, consentendo la separazione tra sviluppo economico e livello delle emissioni climalteranti (in Svezia l’aumento del 58% del PIL del 58% è avvenuto con una riduzione del 22% delle emissioni).

Ovviamente ciò non può bastare: per disincentivare l’utilizzo delle fonti fossili, l’abbiamo detto più volte, è urgente abbattere e redistribuire i sussidi ambientalmente dannosi. La campagna denigratoria di questi anni finalizzata a diffondere l’idea che le rinnovabili costino troppo si è scontrata con i dati ufficiali del Ministero dell’Ambiente, che hanno dimostrato come lo Stato spenda ogni anno una cifra di 16 miliardi in sussidi dannosi, per il 90% verso il settore dell’energia fossile. Chiediamo una profonda spending review coerente con gli accordi della COP21 di Parigi, che sposti queste risorse in investimenti strutturali per la green economy, l’economia circolare, la riqualificazione di città, infrastrutture, mobilità e trasporti sostenibili.

Ma non solo. Bisogna essere in grado di ripensare radicalmente la nostra Strategia Energetica Nazionale, fissando a 30 anni la transizione verso un sistema interamente carbon-free. L’Italia deve giocare un ruolo di primissimo piano: gli attuali impegni non sono sufficienti a raggiungere gli obiettivi della COP21 e non ci consentono di conquistare la leadership del settore (pensiamo agli investimenti della Cina). Come richiesto da associazioni ambientali e di categoria, dobbiamo passare dall’attuale riduzione del 40% delle emissioni al 2030 al 55%. Siamo convinti infatti che con le giuste scelte si possa arrivare ad una riduzione superiore al 95% entro il 2050. Il gas di derivazione fossile potrebbe in tal senso servire come elemento di transizione, ma non può essere un vettore attorno a cui pianificare investimenti a medio/lungo termine. Le nuove infrastrutture dovranno piuttosto orientarsi al contributo del bio-metano proveniente dalla digestione anaerobica della frazione umida dei rifiuti e dai sottoprodotti agricoli.

Un’altra proposta concreta che abbiamo in mente da tempo è quella di un grande piano per l’efficienza energetica del settore residenziale, che sblocchi gli investimenti del settore pubblico eliminando il vincolo del pareggio di bilancio, trasformando e ridando vita al settore edilizio in una logica di innovazione e di consumo di suolo zero.

Dobbiamo poi prendere atto delle indicazioni di Unione Europea e Anti-Trust per la liberalizzazione dell’auto-produzione e scambio di energia rinnovabile: abbiamo più volte chiesto lo sblocco dei “sistemi chiusi d’utenza” che rendono accessibile proprio l’autoproduzione, lo stoccaggio e l’autoconsumo rinnovabile ad imprese, inquilini di condominio, persone con basso reddito o che abitano in case popolari: una generazione distribuita e diffusa che può ridurre le perdite, spegnere le centrali inquinanti e distribuire risparmio e benefici tra i cittadini con un immediato taglio delle bollette. Abbiamo anche pensato a un fondo permanente di rotazione finalizzato alla sostituzione di tetti in fibrocemento amianto sui capannoni con nuovi tetti opportunamente coibentati, su cui installare impianti fotovoltaici per l’auto-consumo e/o lo scambio.

Viviamo in un Paese, l’Italia, che è ad alto rischio sismico e idrogeologico. Quali sono le misure di prevenzione che proponete per le aree sismiche e quelle a rischio di dissesto idrogeologico densamente popolate? Cosa proponete per le popolazioni terremotate del centro Italia e per le zone ad altissimo rischio, come le pendici del Vesuvio?

Loredana De Petris: Investimenti pubblici. Nonostante il Governo si sia spesso trovato teoricamente d’accordo con la necessità di programmare investimenti fissi, anche nell’ultima Nota di aggiornamento al DEF abbiamo riscontrato una loro diminuzione (dal 2,1 al 2% nel 2020). Abbiamo poi visto in questi anni l’inutilità dei roboanti proclami per le grandi infrastrutture, che sono altamente impattanti per l’ambiente e la vita dei cittadini: chiediamo invece risorse, anche al di fuori dei vincoli di bilancio, per un Piano di piccoli e medi interventi di manutenzione del territorio, che sia in grado di mettere in sicurezza il nostro Paese dai danni crescenti del cambiamento climatico e di una progettazione miope dell’edilizia e delle infrastrutture. Non possiamo continuare a rimandare: le politiche degli ultimi anni hanno reso il nostro Paese schiavo di una emergenza permanente. Da qui la necessità di un programma di mille piccole opere per la messa in sicurezza del territorio, delle zone sismiche, delle scuole, per la rigenerazione urbana in collaborazione con il sistema delle autonomie locali.

Pianificare nell’emergenza non ha poi consentito in questi anni i giusti interventi per le popolazioni colpite dai disastri e dalle calamità; agire sotto una pressione simile rende molto complicata la tutela di una delle esigenze fondamentali dei territori devastati: proteggere le comunità. Non possiamo permetterci di perdere un patrimonio così prezioso sotto un profilo ambientale, culturale, e sociale, che è spesso l’unico antidoto al dolore di interi territori, distrutti. Dove è possibile, bisogna consentire alle comunità e ai cittadini di riprendere la propria esistenza, a tutto campo, nel luogo dove affondano le loro radici. Ove questo non fosse praticabile, e questo solo i tecnici e la ricerca possono dirlo, bisogna garantire alle persone che la propria vita non venga ulteriormente colpita dall’isolamento e dalla diaspora delle proprie identità.

L’inquinamento atmosferico come emergenza ambientale e sanitaria, soprattutto nelle regioni più industrializzate del Nord Italia (ogni anno arrivano dati sempre più allarmanti per la concentrazione stagnante di particolato in pianura Padana, di recente molto hanno fatto discutere immagini satellitari molto eloquenti): cosa prevede il vostro programma in merito?

Loredana De Petris: Ricordiamo come il rapporto Mal’aria 2018 di Legambiente abbia messo in rilievo una emergenza smog sempre più cronica nel nostro Paese, oggetto tra l’altro di procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea. Nelle grandi città, e nello specifico in 39 capoluoghi di provincia, è stato superato il limite annuale di 35 giorni per le polveri sottili.

Il primo aspetto su cui intervenire, a nostro avviso, è quello dei trasporti e della mobilità sostenibile: attualmente oltre il 60% degli spostamenti delle merci viaggia su TIR ed oltre il 60% di persone che si muove ogni giorno lo fa con la propria auto; una condizione che determina il 26% delle emissioni complessive di gas serra, 3419 morti sulle strade e 246.000 feriti nel 2015, con la perdita di salute e benessere. In aggiunta, le nostre città sono un garage a cielo aperto, con 61 auto ogni 100 abitanti. Per cambiare strada servono azioni su tre ambiti, secondo le linee guida europee: risparmiare traffico (Avoid), spostare l’equilibrio verso sistemi a basso impatto (Shift) e migliorare le tecnologie dei veicoli per ridurre le emissioni (Improve), a partire dalla messa al bando delle nuove immatricolazioni di auto diesel e benzina entro il 2030. Senza dimenticare la “cura del ferro”, l’incentivazione del trasporto su rotaie, a cominciare dalla manutenzione del materiale rotabile.

Ritenete siano sufficienti gli interventi adottati finora dai singoli comuni a rischio, o pensate sia opportuno prevedere dei programmi più incisivi per abbassare le emissioni (trasporti, impianti di produzione, riscaldamento)?

Loredana De Petris: Assolutamente insufficienti. Le misure frammentate si rilevano spesso di scarso impatto e, anche in questo caso, vengono costruite in risposta al susseguirsi di emergenze e superamenti dei livelli consentiti: servono invece interventi di ampio respiro, strutturali, predisponendo ove servano singole azioni locali e nazionali. Come accennato poco sopra, gli investimenti pubblici sono essenziali per cambiare rotta, sia per la mobilità (mettendo al centro il trasporto pubblico locale) che per altri aspetti: edilizia e riscaldamento, riconversione dell’industria, o, ancora, il verde urbano: il microclima e l’inquinamento all’interno delle aree urbane possono essere fortemente condizionati da superfici verdi e boschi urbani collocati nelle aree centrali, perché la loro funzione positiva si esercita soprattutto dove più alta è la densità edilizia.

Ancora: abbiamo parlato prima della carbon tax, che potrebbe, ad esempio colpire le centrali sulla altamente inquinante produzione termoelettrica. È necessario poi, come suggerito dalla stessa Legambiente, che Governo e Regioni modifichino le strategie messe in atto con i Piani di risanamento dell’aria, che si sono dimostrati inefficaci.

È ormai confermato da diversi studi epidemiologici che l’inquinamento atmosferico sia causa di diverse forme di tumori. Avete una posizione in merito all’istituzione del Registro Tumori dove ancora assenti?

Loredana De Petris: I Registri Tumori sono uno strumento molto utile per comprendere i legami tra territorio, ambiente e salute, valutando con maggiore precisione i danni sanitari e ambientali di pratiche economiche, insediamenti industriali, urbanizzazione, gestione dei rifiuti. È chiaro però come non possano diventare una foglia di fico per eventuali azioni risolutive: lo Stato e le Regioni devono garantire risorse per una loro corretta elaborazione, predisponendo poi risposte efficaci ai nessi ormai innegabili tra malattie e attività economiche. Non è più accettabile il ricatto lavoro-salute, lavoro-ambiente. Sappiamo bene i danni di alcune attività sui cittadini, eppure nessuna azione risolutiva è stata messa seriamente in campo. Su questo aspetto non sono ammissibili tentennamenti: pensiamo anche allo scandalo dei SIN (Siti di Interesse nazionale), territori gravemente compromessi in molti dei quali le bonifiche non sono nemmeno partite.

Il consumo di suolo avanza a ritmi insostenibili (30.000 ettari di suolo al giorno, pari a 5mila ettari di territorio, ultimi dati ISPRA): cosa prevede sull’argomento la vostra proposta di governo?

Loredana De Petris: Gli ultimi dati dell’ISPRA sul consumo di suolo in Italia descrivono una vera e propria emergenza nazionale legata allo sfruttamento incontrollato del territorio a fini edilizi. Il dato italiano è al 7% annuo: il doppio della media europea, che è del 4,3%, due volte in più della Spagna, cinque volte in più della Germania e dieci volte in più della Francia. Un quarto delle coste italiane sono cementificate. Lo sfruttamento sregolato di suolo ha causato un aumento preoccupante della pericolosità idraulica e dei fenomeni erosivi: in questo modo perdiamo le funzioni produttive dei suoli, così come la loro possibilità di assorbire CO2, fornire sostentamento per la componente biotica dell’ecosistema, garantire la biodiversità e la fruizione sociale. Allarmanti sono anche i dati dell’abusivismo edilizio: secondo le ultime rilevazioni Istat vi sono circa 20 costruzioni abusive ogni 100 autorizzate, mentre nel Mezzogiorno l’abusivismo supera largamente il 50% della produzione edilizia legales. Senza risolvere, tra l’altro il problema dell’emergenza abitativa: in Italia ci sono 7 milioni di alloggi inutilizzati.

Spetta alla Sinistra l’elaborazione di un Piano Nazionale di Buona Urbanistica, capace di tutelare le risorse naturali e il paesaggio e assicurare insieme il diritto alla salute urbana, il diritto alla qualitàà e alla bellezza e il diritto alla casa, contro la speculazione edilizia incontrollata, guidata dagli interessi del mercato basati sulla rendita.

Le misure da mettere in campo riguardano in primis la riconversione del comparto edilizio verso interventi di recupero e rinnovo, nonché la riqualificazione urbana. È evidente come ormai la rendita si stia concentrando dove la redditività dell’investimento risulta più elevata: nei vuoti urbani, elementi preziosi nel tessuto consolidato della città. Per contrastare operazioni di pura rendita si dovrebbe introdurre “tassa di scopo” sull’incremento di valore dei terreni prodotto dalle varianti urbanistiche. I parametri che calcolano il consumo di suolo dovrebbero poi tenere conto anche di quello consumato nelle aree urbanizzate. La maggior parte delle Leggi Regionali favoriscono il consumo di suolo indirizzandolo verso i centri urbani (il 54% del consumo viene proprio da lì), dove l’impermeabilizzazione del terreno crea, anche in presenza di precipitazioni meteoriche non eccezionali, gravi danni a persone e cose e la cementificazione degli spazi liberi rende le città invivibili. Si potrebbero istituire significativi contributi aggiuntivi per il rilascio del permesso di costruire, commisurati all’eventuale consumo di suolo, intervenendo altresì sulla destinazione dei proventi derivanti ai comuni dai titoli abilitativi edilizi, per destinarli esclusivamente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi nei centri storici, a interventi di riqualificazione e di messa in sicurezza del territorio.

Il contenimento del consumo di suolo, tuttavia, non può essere affidato alle sole misure urbanistiche di vincolo e dissuasione: occorre agire anche sul fronte del rilancio e del recupero delle attività agricole, che costituiscono l’unica alternativa economica in tal senso. Bisogna prevenire il dissesto idrogeologico e il degrado dei paesaggi rurali favorendo il reinsediamento di attività agricole, a cominciare da quelle condotte dai giovani imprenditori; dovrebbero essere anche istituite specifiche agevolazione per gli interventi, promossi da soggetti privati, per la tutela e la riqualificazione del paesaggio rurale e, allo stesso tempo, misure di carattere fiscale rivolte a disincentivare la presenza di patrimonio immobiliare sfitto ed inutilizzato.

Ogm, un tema ad oggi molto dibattuto. Qual è la posizione del vostro partito? Siete favorevoli o contrari e per quale motivo?

Loredana De Petris: La nostra posizione è in linea con quella espressa dalla grande maggioranza del mondo agricolo nazionale e dai consumatori, attraverso le loro organizzazioni rappresentative. Non siamo contrari alla ricerca, in particolare alla ricerca pubblica su questi temi, ma riteniamo che il principio di precauzione, parte integrante del Trattato dell’Unione europea, debba orientare l’azione della politica a fronte delle numerose osservazioni che sono state formulate nei confronti della sicurezza alimentare e ambientale degli OGM. Siamo quindi contrari alla coltivazione in campo aperto di sementi OGM, riteniamo che non si possa assolutamente derogare alle disposizioni in materia di etichettatura e tracciabilità, neanche per gli OGM cosiddetti di “nuova generazione”, e che occorra mettere radicalmente in discussione la brevettabilità e la privatizzazione della materia vivente, oggi a esclusivo vantaggio delle tre imprese multinazionali che controllano il settore.

SCUOLA, UNIVERSITÀ E RICERCA

Per una scuola migliore della “Buona scuola”, quali sono i cambiamenti che, nella pratica, intendete attuare? In che modo l’alternanza scuola-lavoro può essere trasformata in un’esperienza realmente formativa in grado di costituire un vero valore aggiunto per i ragazzi?

Claudia Pratelli – In primo luogo è necessario spazzare via le riforme tossiche che hanno avvelenato la scuola. Legge 107 in testa. Quel provvedimento ha infatti prodotto una torsione autoritaria nel governo della scuola: chiamata diretta, bonus premiale, delegittimazione degli organi collegiali hanno disegnato una scuola gerarchica e autoritaria, il contrario di quello che serve per tenere insieme una comunità educante. Inoltre si è inoculata una logica competitiva tra scuole, docenti, alunni che penalizza i più deboli e lede un progetto educativo inclusivo. Infine, con l’alternanza scuola-lavoro così come normata dalla legge, si è affermata l’idea di una scuola che educa all’esistente, rinunciando alla sua funzione trasformativa. Si tratta poi di mettere in condizione la scuola di svolgere la propria funzione: formare uomini e donne libere e combattere le diseguaglianze. Obiettivi per i quali sono necessarie risorse: l’Italia, tra i Paesi europei, è la terz’ultima per spesa nel comparto del sapere (il 4% del Pil, un punto in meno della media europea). Da una parte è necessario garantire a pieno il diritto allo studio e abbattere le barriere materiali nell’accesso all’istruzione; dall’altra le scuole vanno dotate delle risorse per poter svolgere una funzione democratica e inclusiva: più organici, tempo pieno e il tempo prolungato, diminuzione del numero degli alunni per classe, valorizzazione del personale della scuola mortificato da retribuzioni largamente inadeguate e afflitto da una precarietà endemica. Contrariamente a quanto raccontato esiste ancora un poderoso popolo di precari della scuola assunti a settembre per essere licenziati a giugno nel migliore dei casi. Occorre un piano pluriennale di stabilizzazioni e nuovo reclutamento. A questo va aggiunta la necessità di un piano straordinario di investimenti sull’edilizia scolastica.

Fin qui gli interventi necessari e urgenti. Si tratta poi di aprire una riflessione sui saperi necessari alla società contemporanea e sulla funzione delle istituzioni della conoscenza. È a partire da qui che va ripensata la relazione tra scuola e mondo del lavoro, non in funzione subalterna, ma anzi utile a costruire elementi di consapevolezza. Così come la funzione della valutazione: la valutazione degli alunni, che non hanno bisogno di classifiche ma di un percorso che li aiuti a imparare meglio; la valutazione di sistema perché non serve mettere in competizione le scuole tra loro, ma al contrario realizzare concrete azioni di perequazione del sistema sul territorio nazionale.

Come progettate di rendere competitive le università italiane in modo da incentivare il rientro dei cervelli? In che modo questo potrà giovare al trasferimento tecnologico? Qual è la vostra posizione nei confronti delle richieste del Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria?

Claudia Pratelli: Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito al continuo sottofinanziamento del sistema universitario e della ricerca pubblica nazionale. Al taglio di oltre 1 miliardo di euro nel Fondo di finanziamento ordinario operato dal 2008 a oggi e al blocco del turn over sono seguiti il calo degli immatricolati; il penultimo posto dell’Italia in Europa per numero di laureati; il crollo del numero di docenti di ruolo (-20% dal 2008 a oggi) e un’impennata della precarizzazione dei ricercatori, con l’espulsione di 94 ricercatori precari su 100 dal 2008 a oggi.

Questo stato di sofferenza colpisce con inaudita gravità anche gli enti pubblici di ricerca, soggetti a misure di sotto-finanziamento, a una razionalizzazione selvaggia in spregio all’utilità strategica di molti istituti e a un’esplosione del precariato – non solo e non più giovanile.

Davanti a tutto questo l’università ha urgente e improcrastinabile bisogno di un piano pluriennale di reclutamento: senza docenti e ricercatori non possiamo ambire a rilanciare l’università e il paese. Del resto l’esodo di molti ricercatori trova ragione proprio nell’impossibilità di fare ricerca in Italia con un contratto decente e la possibilità di accedere ai ruoli accademici. Ciò a cui abbiamo assistito in questi anni non è stato un naturale e sano fenomeno di “brain circulation” ma una perdita secca di ricercatori. Occorre inoltre restituire il maltolto ai nostri atenei attraverso investimenti sul fondo ordinario e finanziare la ricerca a partire da quella di base. I meccanismi premiali attraverso i quali è stata attribuita una consistente quota delle risorse – proprio negli anni in cui il fondo ordinario veniva tagliato – ha prodotto ulteriori storture: cioè un drenaggio di risorse dai poli periferici a quelli centrali incrinando la tenuta del sistema nazionale universitario. Contemporaneamente è necessario stringere la relazione tra università ed enti pubblici di ricerca e sollecitare la creazione di ecosistemi della conoscenza.

Sosteniamo la sacrosanta richiesta relativa alle retribuzioni dei docenti. Contemporaneamente abbiamo ben chiaro che la questione retributiva riguarda tutto il personale universitario, compresi i tecnici amministrativi e bibliotecari che hanno avuto un contratto collettivo bloccato per oltre un decennio. Una piaga troppo spesso taciuta rimane il lavoro gratuito, perché di questo si tratta, svolto da decine di migliaia di precari della ricerca nell’attesa di un contratto, di un concorso, o di un’opportunità o in aggiunta alle funzioni per cui sono retribuiti. Non è un’eccezione ma l’ordinaria realtà dei nostri atenei.

Più università per tutti o un’università migliore per i più meritevoli? Meglio cancellare le tasse rischiando di non poter investire in miglioramenti nella ricerca, nella didattica e nelle strutture o puntare sulle borse di studio?

Claudia Pratelli: Più università per tutti e università di qualità. Questa è la nostra posizione. L’alternativa tra università per tutti e università di qualità è da rigettare. Lo è in generale, ma a maggior ragion in un paese come il nostro in cui il numero di laureati è ben inferiore alla media europea: il 26% di chi ha tra 30 e 34 anni a fronte del 40% degli altri paesi del continente. Non solo. Negli ultimi anni abbiamo anche assistito a un’inversione di tendenza di portata storica: la diminuzione degli immatricolati. Oggi sono 45.000 in meno rispetto all’anno accademico 2004-2005. Non è certo un caso, considerando che l’ultimo decennio è stato segnato dalla crisi economica, dall’impennata delle tasse universitarie, (+60% secondo le organizzazioni studentesche) che si aggirano intorno a 1400 Euro medie annue, e anche da una campagna contro l’università e la sua funzione. Contemporaneamente il nostro rimane un paese che investe pochissimo in diritto allo studio: solo il 9,3% degli iscritti riceve una borsa di studio, in Francia è il 39% in Germania il 25%.

A fronte di tutto questo e della bassa spesa in istruzione e ricerca del nostro paese, ben sotto la media europea, si tratta sia di potenziare l’offerta didattica e aumentare il numero di ricercatori e docenti (ricordiamo che dal 2008 l’università ha subito tagli per oltre 1 miliardo di euro); sia di abolire le tasse universitarie e moltiplicare le risorse per il diritto allo studio. Sia l’abolizione delle tasse universitarie sia gli investimenti per il diritto allo studio fanno parte della nostra proposta. Crediamo che l’università sia un diritto universale e come tale (come la scuola dell’obbligo), debba essere sostenuta dalla fiscalità generale da rendere ancora più progressiva secondo la logica che chi ha di più deve pagare di più. Contemporaneamente è doveroso sostenere con le borse di studio gli studenti che hanno redditi bassi per consentire loro di mantenersi all’università. Interventi di questo tipo ci consentirebbero di allinearci per investimenti alla media europea.

Secondo l’OCSE la spesa pubblica per le istituzioni dell’istruzione in Italia è diminuita del 14% tra il 2008 e il 2013. Intendete investire nella scuola, nelle università, nella ricerca: quale ritiene sia l’ordine di grandezza totale di questi investimenti e quale sarà la loro provenienza?

Claudia Pratelli: In primo luogo è necessario recuperare le risorse sottratte in questi anni, inoltre si tratta di implementare gli investimenti per consentire il libero accesso al percorso educativo, dai nidi all’università. Tutto questo ci allineerebbe ai livelli europei. Investire sulla conoscenza è una scelta politica fondamentale che comporta anche una scelta sull’allocazione delle risorse. Noi pensiamo in primo luogo che le risorse si recuperino con una seria lotta all’evasione fiscale, da cui stimiamo che in pochi anni si possano recuperare almeno 50 miliardi. Proponiamo inoltre un piano d’azione, da coordinare a livello internazionale contro l’elusione fiscale delle grandi multinazionali. Sono proprio queste le voci che sottraggono al bilancio dello Stato risorse fondamentali per l’erogazione dei servizi pubblici e per il Welfare.

INNOVAZIONE

Il concetto stesso di smart city può mutare a seconda del contesto. Anche nel caso italiano, per estendere le politiche di sviluppo intelligente al di fuori delle grandi aree urbane, si parla da anni di smart land. Prevedete di gettare le basi per una strategia nazionale che risponda in maniera organica alle necessità delle comunità del territorio italiano?

Marco Grimaldi: Prima di vedere delle Smart Land ci vogliono scelte ancora più semplici: senza la messa in sicurezza del territorio, la cura degli argini dei fiumi e il rafforzamento del trasporto pubblico locale non si può pensare che sensori e alta velocità dei dati cambi la qualità della vita di chi vive fuori città.

Noi immaginiamo un’agricoltura che sappia tanto prevedere le piene e le gelate quanto aiutare l’ambiente, le nostre risorse idriche e le falde. Sogniamo un territorio dove chi vive in montagna possa continuare a vivere con una sanità di comunità e prossimità più intelligente di quella vista in questi anni.

Lo sviluppo delle intelligenze artificiali ha avviato una vera e propria rivoluzione in molti campi e le pubbliche amministrazioni di molte nazioni stanno lavorando su strumenti d’intelligenza artificiale in grado di essere sfruttati nei servizi ai cittadini: sempre più efficienti e automatizzati. Quali sono le politiche che metterete in atto per l’utilizzo delle IA in ambito pubblico?

Marco Grimaldi: L’implementazione dell’intelligenza artificiale all’interno della Pubblica Amministrazione può portare a grandi prospettive nel miglioramento della gestione dell’apparato burocratico, del carico di lavoro dei dipendenti pubblici e nella fruibilità da parte dei cittadini dei servizi pubblici. Parliamo però di un campo ancora oggi in fase di studio e fortemente sperimentale, in grado di portare a termine, per ora, un ristretto numero di funzioni cognitive. A questo si aggiunge un problema di fondo, estremamente importante. L’IA a differenza della cosiddetta digitalizzazione ha la funzione non solo di supportare il processo decisionale umano, ma di sostituirsi ad esso all’interno dei compiti affidatigli. Questo è un tema le cui implicazioni etiche e legali sono ancora tutte da esplorare. Di sicuro siamo estremamente favorevoli ad incentivare e sostenere la ricerca, specialmente se pubblica e indipendente, nel campo dell’IA e laddove possibile valutare progetti pilota, strettamente controllati, che possano essere degli apripista di una più ampia discussione collettiva sull’implementazione di tecnologie che possano sveltire la raccolta ed elaborazione di grandi quantità di dati necessari a migliorare la fruibilità dei servizi pubblici, da parte dei cittadini. Ovviamente all’interno di questa elaborazione collettiva dovranno rientrare anche i temi etici e legali di cui sopra, fermo restando che l’implementazione di queste tecnologie non deve ledere i diritti di nessuno degli attori coinvolti.

Da anni, ormai,viviamo nel mondo dei big data e ogni giorno generiamo una enorme quantità di informazioni. Queste informazioni possono essere sfruttate (e lo sono già) nell’ambito della pubblica sicurezza. Quali saranno le vostre politiche in merito? Che proposte verranno avanzate per normare il diritto di privacy dei cittadini nell’era dei big data?

[senza risposta]

SCIENZA E SOCIETÀ

Viviamo in una società sempre più tecnologizzata, e come cittadini veniamo tutti messi alla prova dinanzi a sfide inedite, dalle emergenze ambientali alle nuove frontiere della medicina. Queste sfide richiedono la nostra partecipazione e il nostro contributo. Qual è la vostra opinione su queste realtà, la nostra società ha tutti gli strumenti di conoscenza necessari per affrontarle?

Claudia Pratelli: Le grandi sfide e le grandi scelte che abbiamo di fronte non posso essere perimetrate dentro una discussione tra pochi. Per questo la scuola, l’unversità e la ricerca sono al centro del nostro programma: perchè crediamo che l’accesso alla conoscenza sia un fatto di ordine democratico. Per questo ci battiamo per una scuola e un’università non subalterne alle esigenze economiche ma orientate a formare uomini e donne libere, capaci di leggere in modo critico la realtà, decodificarla e articolare pensieri autonomi.

Credete sia necessario, nello specifico, favorire un’informazione più approfondita sui temi del cambiamento climatico e del futuro del pianeta, dei vaccini, delle emergenze alimentari e degli OGM? In che modo?

[senza risposta]

Ritenete sia diventata un’emergenza il dilagare dell’information disorder e delle fake news?
Il futuro governo e il nuovo parlamento potranno fare qualcosa per arginare questo fenomeno e favorire, invece, la crescita di una cultura scientifica più diffusa e consapevole?

[senza risposta]

Avete una posizione riguardo l’opportunità o meno di rivedere l’uso del termine razza nella nostra costituzione?

Sara Prestianni: La terminologia razza è inappropriata in quanto, come dimostrato scientificamente, condividiamo il 99% del nostro genoma con qualsiasi essere umano. Inesistente quindi il fondamento scientifico ma, troppo presente, la strumentalizzazione di questo termine a scopi discriminatori. Ancora più sbagliato l’accostamento dell’aggettivo bianco, erroneo scientificamente e pericoloso politicamente, in quanto legato ad un immaginario di superiorità di un popolo su un altro. È contro questa deriva razzista che parte da un uso inappropriato del termine che la politica è chiamata ad impegnarsi. L’uso strumentale di un concetto scientificamente errato ha giustificato nel tempo gesti violenti ed un clima di tensione davanti ai quali il silenzio o l’approvazione diventano complicità. Se un’abolizione dell’uso del termine razza nella costituzione è auspicabile, ciò che risulta fondamentale è la sanzione e denuncia sistematica di chi, usando questo termine, attua con comportamenti discriminatori e razzisti.

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Giulia Negri
Comunicatrice della scienza, grande appassionata di animali e mangiatrice di libri. Nata sotto il segno dell'atomo, dopo gli studi in fisica ha frequentato il Master in Comunicazione della Scienza “Franco Prattico” della SISSA di Trieste. Ama le videointerviste e cura il blog di recensioni di libri e divulgazione scientifica “La rana che russa” dal 2014. Ha lavorato al CERN, in editoria scolastica e nell'organizzazione di eventi scientifici; gioca con la creatività per raccontare la scienza e renderla un piatto per tutti.