CULTURAIN EVIDENZA

Isola di Pasqua: Moai a rischio a causa dei licheni

I locali la chiamano "lebbra bianca", ma a ricoprire gli antichi monoliti antropomorfi sono strati di licheni. Per un piano di conservazione potrebbero servire fino a 500 milioni di dollari.

I Moai fotografati sotto la Via Lattea. Fotografia di Anne Dirkse, CC BY-SA 4.0

Il 5 aprile 1722, il primo esploratore occidentale, l’olandese Jacob Roggeven, metteva piede su una sperduta isola vulcanica nell’Oceano Pacifico, a 3600 chilometri dalla costa cilena, chiamata Rapa Nui (la Grande Isola) dai polinesiani che l’avevano colonizzata secoli prima. Era la domenica di Pasqua quando fu avvistata, e Rapa Nui fu per questo ribattezzata Isola di Pasqua. Il panorama che si parò davanti a Roggeven era piuttosto desolato, non c’erano molti segni di vegetazione e di vita in generale, tranne che per un particolare: una fila di giganteschi monoliti antropomorfi che sembrava fare la guardia sulle coste dell’isola, i Moai.

Dopo aver resistito a disboscamenti, impoverimento della fauna e calamità naturali, guerre civili – descritte nel film di Costner del 1994 -, emigrazioni ed epidemie, la sopravvivenza di Rapa Nui e dei Moai è oggi di nuovo seriamente compromessa. Gran parte delle statue che ne punteggiano le coste stanno infatti perdendo il loro caratteristico profilo “umano”, a causa di organismi biancastri che attaccano e lentamente erodono il tufo vulcanico. Di qui a fine secolo, le teste giganti dell’Isola di Pasqua rischiano di ridursi a dei semplici, anonimi blocchi rettangolari.

La lebbra bianca dei Moai

A lanciare un nuovo allarme e chiedere aiuto è stato il Chile’s National Forestry Corporation (CONAF), l’ente che tutela il patrimonio boschivo in Cile, paese che ha annesso Rapa Nui nel 1888. Il problema della “lebbra bianca” – come definito dai locali in modo semplicistico ma piuttosto efficace – consiste in una colonizzazioni di licheni, un mix di funghi e alghe, che penetrano nella superficie porosa e indeboliscono la consistenza della pietra fino a uno stato argilloso, facilitando così la deformazioni dei tratti scolpiti. Si tratta di una perdita immane, perché i Moai, nel frattempo diventati patrimonio UNESCO, per i nativi non sono semplici statue, bensì il simbolo dei loro antenati ed eroi. E non sono l’unico bene dell’isola in pericolo.

Le violente tempeste sempre più frequenti e l’ingrossarsi delle onde stanno infatti scavando a ritmo serrato le coste di Rapa Nui. La causa, inutile dirlo, è il cambiamento climatico, le cui prime vittime sono proprio le piccole isole oceaniche, come le Marshall o gli atolli corallini di Kiribati, inghiottiti dall’innalzamento del mare. Sull’Isola di Pasqua le onde hanno già spazzato via molta della sabbia sulla spiaggia di Ovaha, scoperchiando le antiche sepolture i cui resti molto spesso finiscono abbandonati sulle pietre vulcaniche. Come racconta un reportage del NY Times,  tre anni fa il sindaco ha pensato di interrare una simbolica “capsula del tempo” per lasciare ai visitatori del futuro una traccia fotografica di quando il sito era ancora una spiaggia vera e propria.

Ma sono molte le aree archeologiche particolarmente fragili minacciate dall’acqua – in tutto i siti sono ben 30mila – come il cratere vulcanico Orongo, con i suoi graffiti che rievocano le competizioni di nuoto fino ai tempi dello sbarco di Roggeven, o il sito di Runga Va’e dove si registrano frequenti crolli di rocce per lo sbattimento delle onde. Diverse specie di uccelli, inoltre, non nidificano più come un tempo, forse a causa delle mutate condizioni meteorologiche, mentre le massicce migrazioni di volatili sono state un riferimento stagionale per generazioni di nativi Rapanui.

Nonostante l’isola e i suoi manufatti abbiano resistito per più di mille anni a diversi stress – come lo tsunami del 1960 – e si stiano progettando strategie per far fronte all’emergenza, il mutamento del paesaggio è un colpo durissimo per l’economia di Rapa Nui, che dal turismo incassa ogni anno circa 70 milioni di dollari da più di 10mila turisti in media. In più, ci si mette di mezzo quindi anche il lichene, che in base ai dati raccolti da Sonia Haoa, archeologa nativa dell’Isola, colpisce almeno il 70% dei giganti monolitici.

Intervenire si può, ma serve collaborazione

Come spiega a OggiScienza Lucia Toniolo, docente presso il Politecnico di Milano esperta di conservazione di materiali lapidei “Questi organismi possono essere molto dannosi per la superficie lapidea in genere, perchè sviluppano biofilm aggressivi e fortemente adesi alla compagnie cristallina della roccia. L’ambiente di esposizione delle statue di Rapa Nui è certamente favorevole allo sviluppo di licheni. I cambiamenti climatici in atto hanno probabilmente modificato il microclima e favorito la crescita dei licheni. È quindi più che giustificato che ci sia allarme per la conservazione della statue”.

C’è speranza di salvare i Moai? La stessa Haoa ha dichiarato di recente a Reuteurs che “Forse è ancora possibile, con una pulizia accurata e un rivestimento di prodotti sigillanti per frenare l’umidità e impedire il collasso della roccia”.

In effetti, c’è già stata un’ interessante campagna di restauro mirata nel 2010. Sull’isola sono arrivati restauratori italiani della scuola Lorenzo de’ Medici di Firenze guidati da Lorenzo Casamenti, che hanno provato un solvente biocida già testato in altre occasioni. Ma ancora non basta, la sfida è complessa “Il problema può essere affrontato, anche se il contesto ambientale sempre favorirà il riformarsi di licheni”, aggiunge Toniolo “Alcune nanotecnologie sembrano promettenti come trattamento antifouling per prevenirne lo sviluppo. Bisognerebbe però conoscere meglio quello specifico ciclo vitale e sviluppare un protocollo di conservazione programmata”.

Si tratta di una pratica molto onerosa, considerando collocazione, numero e dimensioni delle statue, che potrebbe costare fino a 500 milioni di dollari.  Le 15 statute di Ahu Tongariki, le più celebri e iconiche, sono già sotto stretta osservazione, ma molte altre rimangono scoperte. L’ideale sarebbe una cooperazione internazionale, per questa ragione le istituzioni locali stanno lanciando un nuovo grido d’aiuto. Il sindaco ha intanto pensato di concordare una forma di affitto ai musei, come il British di Londra, che da decenni custodiscono e espongono gli “ambasciatori” di pietra dell’Isola, prelevati in passato durante le esplorazioni.

Il tempo stringe e le risorse, a Rapa Nui, scarseggiano.


Leggi anche: Isola di Pasqua, collasso ecologico o storia fraintesa?

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

 

Condividi su
Marco Milano
Dopo gli studi in Scienza dei Materiali si è specializzato in diagnostica, fonti rinnovabili e comunicazione della scienza. Da diversi anni si occupa di editoria scolastica e divulgazione scientifica. Ha collaborato, tra gli altri, con l’Ufficio Stampa Cnr e l’agenzia Zadig.