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L’epidemia di Covid-19 è un imprevedibile «nemico pubblico»

La strategia del contenimento sembra rallentare l’epidemia, ma l’OMS invita a non abbassare la guardia: dobbiamo essere pronti anche al rischio di un contagio globale.

Ora la minaccia ha un nome: COVID-2019. È la sigla ufficiale scelta per indicare la sindrome causata dal nuovo coronavirus emerso a Wuhan lo scorso dicembre. Sebbene tardiva, la scelta di un nome senza connotazioni negative, né riferimenti a luoghi o popolazioni, è importante per evitare espressioni che possono creare stigma verso la comunità cinese. Nel frattempo l’incertezza sulla diffusione e sui possibili sviluppi dell’epidemia continua a tenere banco tra gli esperti.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) considera «molto grave» la minaccia e ha avvertito che il numero limitato di contagi individuati fuori dalla Cina potrebbe essere soltanto «la punta dell’iceberg». Cosa accadrà nei prossimi mesi? Potremo contare su un vaccino o dovremo continuare a fare affidamento soltanto sulle misure di contenimento? L’epidemia si estinguerà con l’arrivo della primavera, come la comune influenza stagionale, o il coronavirus riuscirà a varcare i confini cinesi scatenando una pandemia?

L’evoluzione del contagio

Il 13 febbraio il numero delle vittime è balzato a 1.370 mentre quello dei contagi ha superato quota 60.300 (per il bilancio aggiornato in tempo reale, si può consultare la mappa della Johns Hopkins University). Questa impennata improvvisa, tuttavia, si deve in gran parte alla modifica dei criteri usati per diagnosticare la malattia. Finora, infatti, venivano conteggiati soltanto i casi positivi ai test di laboratorio. Il problema è che nella provincia di Hubei la disponibilità di kit diagnostici è limitata e i test non sempre si sono dimostrati affidabili: pare che spesso occorra ripetere più volte l’esame prima di avere una risposta, cosicché molte persone, pur manifestando i sintomi della malattia, sono finite nel limbo dei “casi sospetti ma non confermati”.

Queste difficoltà hanno portato a sottostimare il numero di contagi e, peggio ancora, a ritardare l’assistenza ospedaliera alle persone in attesa di una conferma dagli esami di laboratorio. Le autorità sanitarie di Hubei hanno perciò deciso che d’ora in poi, per avere conferma della malattia, sarà sufficiente il riscontro clinico dell’infezione con una TAC polmonare. Con buona pace per i feticisti delle statistiche, ma a beneficio dei pazienti che potranno ricevere assistenza in tempi più rapidi.

Più che ai numeri assoluti, tuttavia, in questi giorni l’attenzione degli esperti è rivolta alla velocità di diffusione dell’epidemia, che negli ultimi giorni è parsa rallentare. Forse un segno che le misure di contenimento imposte dal governo di Pechino stanno funzionando. È presto per sapere se il contagio potrà essere arginato all’interno dei confini cinesi, ma per il momento la trasmissione del virus nel resto del mondo appare legata a casi sporadici.

Fuori dalla Cina, il più importante focolaio attivo si trova sulla Diamond Princess, la nave da crociera ancorata da ormai dieci giorni nel porto di Yokoama, in Giappone. A bordo ci sono circa 3.700 persone fra passeggeri e membri dell’equipaggio, e i contagiati sono già saliti a 218, ma il governo nipponico ha finora impedito lo sbarco. Una decisione che solleva anche quesiti etici perché costringe migliaia di persone – in gran parte anziane e perciò più esposte al rischio di sviluppare patologie gravi in caso di contagio – a una quarantena forzata in un ambiente ad alto rischio. Una situazione che rimanda ai 40 giorni di confino imposti nel Trecento dalla Repubblica di Venezia alle navi che facevano richiesta di attraccare in laguna, nel tentativo di tenere alla larga la peste nera.

Nemico pubblico

In mancanza di vaccini e antivirali specifici, del resto, la strategia del contenimento, basata sul rapido isolamento dei casi sospetti, sulla limitazione degli spostamenti e sui comportamenti da adottare per proteggersi dal contagio, resta l’unica difesa. Al momento, infatti, i pazienti possono essere trattati solo con antivirali sviluppati per altre malattie, come l’Ebola o l’AIDS, nella speranza che possano funzionare contro il nuovo coronavirus. Mentre l’OMS stima che per un vaccino bisognerà attendere un anno e mezzo. Come infatti ha spiegato l’immunologo statunitense Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, sebbene i primi vaccini sperimentali saranno pronti già in primavera, servirà almeno un anno per provarne l’efficacia e la sicurezza, e altri mesi ancora per la produzione su larga scala.

Nel frattempo ha fatto discutere l’avvertimento di Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS, che lo scorso 10 febbraio, al termine di un convegno organizzato a Ginevra a cui hanno partecipato 400 scienziati di tutto il mondo, ha incitato i governi «a svegliarsi e a considerare il coronavirus il nemico pubblico numero uno». Ghebreyesus ha spiegato che «un virus può creare più sconvolgimenti politici, sociali ed economici di qualsiasi attacco terroristico».

Secondo l’OMS, in Cina, dove si conta il 99% dei contagi, il coronavirus resta un’emergenza, «ma è una grave minaccia anche per il resto del mondo». La diffusione del virus fuori dai confini cinesi potrebbe accelerare, ha avvertito Ghebreyesus. Tra gli esperti serpeggia il sospetto che l’assenza di casi riscontrati in Paesi con forti legami con la Cina, come l’Indonesia o l’intero continente africano, possa essere dovuto alla mancanza di controlli adeguati. Il timore è che il contagio possa diffondersi senza controllo nei Paesi più vulnerabili e con meno risorse per identificare i casi sospetti, offrire assistenza sanitaria alle persone contagiate e arginare l’epidemia.

Prepararsi all’impatto

Nei giorni scorsi il celebre epidemiologo cinese Zhong Nanshan ha espresso un’ipotesi rassicurante: l’epidemia raggiungerà il picco entro la fine di febbraio, per poi estinguersi nel corso della primavera, come avvenne per la SARS nel 2003. L’altrettanto illustre collega Gabriel Leung dell’Università di Hong Kong, aveva invece riferito al Guardian che, se non si riuscirà ad arginare la catena di trasmissione, il coronavirus potrebbe contagiare due terzi della popolazione mondiale. E a quel punto, persino con una bassa letalità del virus, intorno al valore stimato dell’1%, il bilancio delle vittime sarebbe catastrofico. Ma, come ammesso subito dopo dallo stesso Leung, nessuno sa cosa accadrà veramente.

Questa altalena di allarmi e rassicurazioni che coinvolge anche gli esperti può apparire destabilizzante, ma in realtà svela l’enorme incertezza che ancora avvolge il nuovo coronavirus e impedisce di avanzare pronostici attendibili sugli sviluppi dell’epidemia. «Penso che sia troppo presto per fare previsioni e per sapere se siamo più vicini all’inizio, alla metà o alla fine dell’epidemia», ha tagliato corto Michael Ryan, responsabile delle emergenze sanitarie dell’OMS.

In ogni caso, oltre che dai nostri sforzi per arginare il contagio, il concretizzarsi o meno di una pandemia dipenderà soprattutto dalla natura del coronavirus, che conosciamo solo in parte. Nel caso venga confermata la possibilità che il virus possa essere trasmesso anche da persone che non manifestano alcun sintomo, per esempio, sarà molto più difficile fermare l’epidemia con misure di contenimento. Si potrà ritardare la pandemia ma, forse, non evitarla. A quel punto, la strategia dovrà necessariamente cambiare: anziché cercare di contenere la diffusione del virus, occorrerà fare il possibile per contenere i danni. Ne è ben consapevole l’OMS che invita i governi a sfruttare questa finestra di tempo per prepararsi a gestire l’eventuale arrivo del virus. L’unico modo per non farsi trovare impreparati, ancora una volta, è prendere sul serio la minaccia e attrezzarsi anche per lo scenario peggiore.


Leggi anche: Come nasce un’epidemia

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Fotografia: U.S. Centers for Disease Control – Public Domain

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Giancarlo Sturloni
Sono un giornalista scientifico esperto di comunicazione del rischio. Svolgo attività di comunicazione, formazione e consulenza in campo sanitario e ambientale. Sono co-fondatore del collettivo NatCom - Communicating nature, science & environment di Trento. Insegno Comunicazione del rischio alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, all’Università degli Studi di Udine e all'Università degli Studi dell'Insubria. Sono autore di diversi libri tra cui "La comunicazione del rischio per la salute e per l'ambiente" (Mondadori Università, 2018) e "Il pianeta tossico" (Piano B, 2014). Con Daniela Minerva ha curato il volume "Di cosa parliamo quando parliamo di medicina" (Codice, 2007).