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Mondi alieni, in una docufiction il world building di Netflix

Netflix si cimenta nella costruzione di mondi complessi e ci porta alla scoperta di alcuni magnifici pianeti. Che in realtà non esistono.

Il world building, cioè l’arte o la tecnica di costruire pianeti immaginari o virtuali, è una disciplina che ormai non appare più così bizzarra come in passato. Se il primo a formalizzarla è stato forse l’autore di Dune, Frank Herbert (il saggio “come si costruisce un mondo” appare nell’introduzione di Messia di Dune, secondo romanzo del suo famoso ciclo), la pratica di costruire mondi ha interessato nel corso degli anni sempre di più narratori di tutti i generi: dagli autori di serie e saghe tv, creatori di videogiochi e giochi di ruolo, curatori del look and feel di catene di negozi e così via, tanto che al giorno d’oggi esistono veri e propri corsi universitari su questa pratica.

I tempi quindi sono maturi perché Netflix estragga dal suo iperprolifico cilindro una docufiction che sembra in effetti un po’ un esercizio di stile sul world building. Così è successo.

L’arrivo di Mondi alieni

Con Mondi alieni, infatti, lo spettatore viene trasportato su alcuni pianeti immaginari ma nel complesso verosimili dove animali, vegetali e funghi extraterrestri di vario tipo mangiano, si mangiano, si riproducono e insomma fanno la loro vita. Per quanto sia ovviamente un esercizio di astrazione, Mondi alieni cerca di rimanere sempre nell’ambito della plausibilità o per lo meno della possibilità scientifica, tanto è vero che a metterci la faccia e a introdurre la serie è Didier Queloz, premio Nobel per la fisica nel 2019 e scopritore del primo esopianeta.

Per ognuno dei 4 pianeti esaminati (uno a puntata), viene messa in evidenza una differenza sostanziale con la nostra Terra. Una massa maggiore, la maggior vicinanza alla propria stella, la rotazione attorno a due stelle invece che a una e una diversa età del sistema stella-pianeta. Questa caratteristica di base porta inevitabilmente, dal punto di vista astronomico, a delle conseguenze notevoli e spesso inaspettate: ad esempio, il pianeta Janus è così vicino al suo sole da non potere ruotare su se stesso, motivo per cui avremo una faccia rovente e una faccia gelida (e la vita si svilupperà perciò, in condizioni proibitive, soprattutto nella zona intermedia, del crepuscolo, tra le due facce del pianeta).

Su Atlas la gravità è così forte invece da rendere l’aria più densa e più difficile da penetrare per i numerosi organismi volanti. Nella puntata riservata a Terra parlare di un pianeta molto vecchio diventa un espediente per parlare di civiltà estremamente sviluppate (che sembrano strizzare l’occhio al classico della hard science fiction Incontro con Rama).

L’operazione non è nuova, anzi sembrerebbe quasi uno standard della comunicazione scientifica speculativa: l’astronomo statunitense Neil Comins già nel 1993 aveva pubblicato una serie di saggi sulle conseguenze dell’alterazione di un parametro (il libro si chiamava significativamente What if the moon didn’t exist) e qualcosa del genere veniva fatto periodicamente, qualche anno fa, su pagine illustrate di Focus che proponevano una terra con una maggior forza di gravità, con più ossigeno e così via.

Basta un solo cambiamento

L’operazione è però, in Mondi alieni come nei saggi di Comins, interessante perché fa riflettere su quali radicali conseguenze si hanno anche con il cambiamento di un solo parametro. Inoltre, la docufiction di Netflix rinuncia a voler stupire a tutti i costi presentandoci miriadi di animali diversi: viceversa si concentra solo su un numero limitato di specie del pianeta (non è dato sapere se siano le uniche esistenti), evidenziandone più che le singole caratteristiche le interazioni preda predatore e/o i cicli vitali.

Per ogni pianeta quindi ci verrà presentata al massimo una manciata di creature a cui non vengono dati improbabili nomi esotici, ma che vengono definite dalla voce narrante in base alle loro caratteristiche (i pascolatori, i predatori, ecc.). La sfida più complessa di Mondi alieni è mantenere l’interesse dello spettatore verso animali che, in assenza di una vera e propria narrazione, devono sembrare abbastanza strani da essere interessanti ma al contempo abbastanza familiari da poter creare empatia.

Insomma, è interessante vedere una specie di granchio grande come un gatto ma con 5 piedi e 10 occhi mangiare altre bestioline in assenza di una storia, di una linea narrativa? E’ interessante seguire la routine di animali che non esistono senza che prima o poi succeda qualcosa che non sia un quotidiano inseguimento preda/predatore a rompere l’equilibrio? Difficile giudicare se questo avvenga effettivamente e forse anche la presenza di soli quattro mondi e quattro puntate serve a non rendere stucchevole e ripetitivo un prodotto che, sebbene ben confezionato, è nel complesso un esperimento.

Docufiction, è il tuo genere?

La docufiction non è per tutti, ma in molti casi è la presenza di una narrazione forte – come accade nei film fantasy o di fantascienza – a potenziare un senso di meraviglia nello spettatore che qui tutto sommato si prova un po’ di meno. Eppure ci si salva dalla noia o dall’effetto straniante di passare del tempo a guardare una serie di documentari su mondi che non esistono grazie a un espediente intelligente: tutte le puntate infatti presentano un continuo ping pong tra il nostro pianeta e il pianeta alieno esaminato.

Ecco allora che Mondi alieni diventa quasi una scusa per parlare anche di luoghi della Terra estremi e di estrema bellezza, talvolta poco conosciuti (e fotografati magnificamente) e per mostrarci animali estremofili o dai comportamenti particolari o da alcune caratteristiche assolutamente peculiari.

Il messaggio che passa allo spettatore è che la vita sembrerebbe attaccarsi ostinatamente un po’ dappertutto e che la vastità dell’universo potrebbe racchiudere sorprese al di là di ogni umana immaginazione, oltre che – tristemente – possibilità di analisi (allo stato delle conoscenze attuali appare difficile riuscire a conoscere molto di un eventuale mondo abitato, tanto meno comunicarci).

In conclusione una serie non per tutti ma che ha un certo fascino: se sia un esercizio di stile o l’inizio dello sdoganamento al grande pubblico del world building lo scopriremo probabilmente solo tra qualche tempo. Intanto i commenti di critica e pubblico globalmente sono positivi e molto spesso emerge la lamentela che i pianeti fossero solo quattro. Un po’ di curiosità di vederne qualcun altro, in effetti, ci è venuta.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Netflix

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Carlo Rigon
Di formazione umanistica, ha conseguito il Master in Comunicazione della scienza presso la SISSA di Trieste. Insegnante, si occupa con scarso successo e poca costanza di tante cose. Tra i suoi progetti più riusciti un "museo del dinosauro giocattolo", ora chiuso.