Ecco i danni ambientali della perdita d’olio nel Golfo del Messico
AMBIENTE – Per molti il nome Exxon Valdez è un ricordo sfocato. È il nome di una nave petroliera che nel 1989 si incaglia su una scogliera lungo la costa dell’Alaska, spargendo in mare 41 milioni di litri di petrolio. Solo per il contatto diretto con gli idrocarburi dispersi muoiono 250 mila uccelli marini, una popolazione di 3 mila lontre, 300 foche e miliardi di uova di salmone e aringa. Invece ciò che è successo il 20 aprile nelle acque del golfo del Messico lo abbiamo visto tutti. Durante le fasi di realizzazione di un pozzo in acque profonde si verifica un’esplosione sulla piattaforma petrolifera DeepWater Horizon, che affonda due giorni dopo.
Le conseguenze sono gravissime perché muoiono 11 persone e dal pozzo a 1500 metri di profondità fuoriescono in mare milioni di litri di petrolio greggio in poche ore. Le responsabilità pesano come un macigno; inizia uno scontro politico durissimo tra l’amministrazione Obama e la compagnia inglese British Petroleum che gestisce l’impianto. La marea nera raggiunge le coste della Louisiana, dell’Alabama e della Florida (già pesantemente segnate dal devastante uragano Katrina nel 2005) mettendo in ginocchio l’economia di questi stati, legata all’industria ittica costiera e al turismo. Oggi, dopo 71 giorni, vengono rilasciati in mare ancora 100.000 barili di petrolio al giorno. Il danno ambientale è gravissimo, l’impatto sulla vita acquatica è devastante e l’oceano sta pagando un prezzo altissimo, che in pochi sembrano riconoscere.
Lo strato denso di petrolio superficiale riduce la quantità di luce che penetra nella colonna d’acqua necessaria alla fotosintesi delle alghe da cui dipende la sussistenza di interi ecosistemi sia costieri sia di mare aperto. Il petrolio diminuisce l’idrorepellenza del piumaggio degli uccelli e questo non consente l’isolamento termico: gli animali finiscono per morire di ipotermia. Le immagini dei pellicani catturati per essere ripuliti dal greggio hanno fatto il giro del mondo. Resta però il problema di dove rimettere gli uccelli una volta “curati” perché il loro habitat naturale al momento è compromesso, forse in maniera irreversibile. Lungo le spiagge dell’Alabama si stanno recuperando migliaia di uova di tartaruga, per evitare che gli animali appena nati rimangano intrappolati nel petrolio che ricopre la sabbia. 30 miglia a sud della piattaforma si trovano le isole Chandeleur, un arcipelago ricchissimo per numero di specie presenti (31 quelle di mammiferi) e dichiarato riserva naturale dal presidente Theodore Roosevelt, qualcosa come cento anni fa. È una zona dove i delfini sono abbondanti, ma il petrolio ne mette a rischio la sopravvivenza; per respirare devono venire in superficie finendo con l’imbrattarsi di petrolio che irrita gli occhi e le vie respiratorie.
Nel nord del golfo del Messico, a Ewing Bank, un team di ricercatori della University of Southern Mississipi ha avvistato in superficie un banco di squali di balena, formato da 1oo animali di lunghezza tra i 9 e i 13 metri «Aggregazioni così grandi in questa area non sono rare perché gli squali vengono qui a cibarsi durante l’estate e sono uno degli spettacoli naturali più incredibili» afferma Eric Hoffmayer, a capo di una ricerca sugli squali balena in questa area (http://www.usm.edu/gcrl/whaleshark/ ), «finiranno con il morire e non possiamo fare nulla. Stanno ingerendo petrolio ogni volta che aprono la bocca per mangiare il plancton, non è però la tossicità che li ucciderà ma il fatto che il petrolio si attacca alle branchie e agli organi interni compromettendone la funzionalità».
Secondo Hoffmayer gli squali non hanno ancora un meccanismo naturale che gli permette di proteggersi perché, da un punto di vista storico ed evolutivo, l’inquinamento da idrocarburi in mare è un fatto troppo recente. «Semplicemente i loro sensi non gli permettono di avvertire un pericolo. Il risultato è che questi animali da giorni nuotano nel petrolio senza far nulla per evitarlo. Purtroppo nel caso degli squali -conclude Hoffmayer- non potranno essere fatte analisi approfondite per determinare l’effetto correlato alla marea nera, perché questi animali una volta morti, affondano e le carcasse non sono recuperabili».